di Tina Mazzella
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Alla c.a. della Redazione
Essendo stata anch’io una piccola emigrante ponzese, ho scritto questa riflessione che sottopongo alla vostra attenzione e a quella dei Lettori di Ponza racconta.
Grazie ed auguri di Buone Feste.
T.M.
Durante l’infanzia o all’affacciarsi della prima adolescenza molti ragazzi ponzesi come me sono stati costretti e tuttora lo sono ad allontanarsi dalle loro case per intraprendere gli studi in terraferma.
Sino ai primi anni Sessanta a Ponza esistevano soltanto le scuole Elementari e forse l’Avviamento; per giunta numerose difficoltà nelle comunicazioni complicavano la vita più che mai rendendo più difficili di oggi le relazioni con il continente.
Perciò per poter conseguire un discreto livello d’istruzione e per non rinunciare all’opportunità di costruirsi un avvenire meno precario, bisognava preparare le valigie ed andare altrove.
Si veniva sradicati dall’ambiente familiare, si dovevano abbandonare i giochi consueti, gli amici, le care abitudini, le spiagge e gli scogli per diventare piccoli emigranti. Ci si trasferiva in luoghi più o meno accoglienti che differivano l’uno dall’altro a seconda delle necessità e delle situazioni di ciascuno. Nel migliore dei casi quando il trasferimento non coinvolgeva l’intero nucleo familiare, ci si appoggiava presso parenti o conoscenti o, cosa molto più triste, si alloggiava presso istituti laici o religiosi.
A me è toccato lasciare la famiglia e l’isola ad 8 anni per divenire ospite di convitti situati in città lontane.
Spesso lusingati da promesse allettanti da parte dei genitori che, pur di rendere ai figli meno doloroso il distacco, lasciavano intravedere loro false realtà stimolanti, con ingenuità infantile essi si accostavano ad un mondo che non apparteneva loro, un mondo sconosciuto che li avrebbe visti crescere, ma che nel contempo avrebbe negato loro calore umano ed esperienze importanti.
Si partiva con il cuore diviso a metà in cui un forte desiderio di conoscenza e di scoperta si scontrava con un’acuta nostalgia per tutto ciò che ci si lasciava alle spalle. Con un groppo in gola ci si congedava dalle persone care e dalla terra amata.
Rispettando la tabella di viaggio, dopo un’incresciosa levataccia, ci si metteva in marcia di notte come pirati. In un silenzio totale rotto a tratti dal canto di qualche gallo mattiniero e dallo sciabordio del mare, si percorrevano le stradine dell’isola ancora addormentata coltivando la segreta speranza che una tempesta improvvisa impedisse la navigazione per quel giorno.
Confesso di averla nutrita molte volte quella speranza mentre procedevo verso l’imbarco, ma di esserne rimasta regolarmente delusa.
Il piroscafo incombeva inesorabile per ingoiarci e per portarci via; ci concedeva però ancora qualche ora per respirare un soffio di aria domestica. Sul mare s’incontravano compagni e conoscenti, si parlava il nostro dialetto, ci univa il medesimo gergo.
Poi mentre il sole sorgeva dalle acque, il traghetto salpava, si staccava dalla banchina, lanciava il suo fischio di saluto e lentamente prendeva il largo.
Al termine della traversata attraccava nel porto, un tempo solitamente a Gaeta, oggi per lo più a Formia o in altri porti della costa. Là ci aspettavano le carrozzelle trainate dai cavalli che svolgevano un efficiente servizio taxi sino alla stazione ferroviaria, dalla quale ognuno procedeva per la propria destinazione.
Per il “rimpatrio” occorreva attendere; trascorreva un periodo più o meno lungo determinato dai singoli casi e dalle diverse circostanze: chi rientrava per la ricorrenza dei morti, chi per il Natale, chi per la Pasqua e chi doveva accontentarsi di riabbracciare i suoi soltanto in occasione delle vacanze estive.
Il ritorno costituiva comunque una festa. Non appena si scendeva dal treno, si veniva colti da una grande euforia, da una gioia incontenibile, da una voglia pazza di parlare, di sapere ciò che era accaduto in nostra assenza e di riconquistare gli spazi perduti. Ci accoglieva la fragranza marina che si portava dentro il respiro e le essenze della nostra terra.
Sul piroscafo, appendice familiare dell’isola, si ritrovavano persone note, amici. C’erano Amelia, Ada, Angelo, Pino, le figlie di Don Mario il Farmacista e molti altri! Ognuno aveva molte cose da raccontare; si scherzava, si rideva e si faceva un gran baccano perché si era contenti: ci aspettava una vacanza di sole, di mare, di affetti e di vita all’aria aperta. Prima di toccare terra Zannone, lo Scoglio Rosso e la Ravia ci davano il benvenuto.
Di tutte le partenze e gli arrivi che si sono consumati nel corso degli anni forse un segno indelebile rimane stampato dentro di noi. Si tratta di quel senso di precarietà, di quella vaga nostalgia, di quella sorta d’inquietudine che ci coglie ogni qualvolta stiamo per abbandonare i luoghi che ci sono appartenuti stringendoci il cuore e richiamando alla memoria alcune delle sensazioni avvertite probabilmente anche dai piccoli emigranti ponzesi costretti anzitempo a lasciare la loro isola con la vaga speranza di costruirsi altrove un avvenire migliore.