di Francesco De Luca
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Fra cronaca e narrativa
Col levante che prende vita all’alba, l’aria viene spinta lungo le pendici del monte Guardia, e cade dall’altra parte senza boria. Su questa ala, io che sono un refolo (leggi qui – NdR), mi adagio e degrado per la lingua di terra che si insinua nel mare verso Palmarola.
Dall’alto appare la discesa del Fieno protesa nell’acqua discretamente. Pettinata dai filari di vite, acconciata nei sentieri, con punti di colore per i cortili bianchi delle cantine, per le facciate delle grotte dove si consuma il rito della vendemmia.
In alto, dove volo, ho a fianco il falco, disturbato oggi dalla gente in agitazione vicino alle viti, giù, sulle pendici. C’è la frescura ad agevolare il da fare degli uomini intenti a tagliare le pigne, riempire i recipienti, trasportarli in cantina.
Passando radente ho letto l’insegna: Cantine Migliaccio. È un cognome che lega generazioni di varie epoche. Fra queste catene molti uomini hanno sputato fatica, per trarre dalla terra il frutto che li facesse vivere con vanto. Lo hanno fatto sin dal lontano 1700 con la caparbietà di chi crede nel proprio lavoro e nella generosità di quel terreno, che esalta le qualità dei vitigni: riparati e soleggiati.
Stamattina ci sono anche donne a dare una mano. Mancano i ragazzi. E’ vero! Odo il riso delle signore pungolate dalle battute di Totonno ’i Semiscotte, il sorriso grave di Liberato, il motteggiare serio di Luigi ‘u niro, ma non l’argentino delle voci dei bimbi in corsa. La malìa di ritrovarsi al Fieno per gioire dell’abbondanza e della bontà dei suoi frutti appare senza futuro. La vendemmia occupa persone che hanno maturato gli anni insieme alla gioia di rivedersi, puntualmente, dopo che l’estate ha imbiondito gli acini di uva.
Gesti piani che si adagiano sulle pigne, fra i tralci in mostra. Uomini e natura intrecciati per farsi scambievole piacere. In armonia e giovialità.
Leggero mi allontano per vedere a che punto sono i frutti di quel sorbo, poi con rispetto mi intrufolo fra i rami del vecchio castagno, signore incontrastato del luogo. Vengo distratto dalla voce: “Venite… ‘a marenna… ‘a marenna”.
È più forte di me: mi impossesso del grido e lo trasporto dovunque, per tutte le catene. ‘A marenna (la merenda) contempla la pausa del lavoro per la degustazione delle pietanze. Ma soprattutto per gettarsi nelle braccia del vino. Il rosso accompagna ’u cuniglio, il bianco s’adatta a ’i nnucchette e a ’i zeppole, lo spumante di Liberato dovrebbe chiudere la mangiata ma, a sorpresa, viene aperto un vinello rosato e si riaprono le porte del paradiso.
Anche io, a forza di trascorrere fra questi posti, sono intriso d’alcol. La mia inconsistenza aerea rende vacui gli intruppi contro le cose ma sento che è meglio per me che mi adagi su questo poggio. Compagna è la farfalla gialla in cerca dei gambi di finocchietto, un attento pigliamosche mi irride.
La giornata ha avuto un andamento d’altri tempi, e il lavoro ha segnato il ritmo. Al Fieno poi si è immersi in una dimensione di realtà priva di ansia, sciolta da vincoli sociali. Stare insieme in allegria, bisbigliando chiacchiere mentre ci si impastoia di mosto, di terra, di sudore. L’ampia distesa del mare davanti rasserena, l’erta parete del monte alle spalle fa da barriera.
Mi accorgo ora che il levante è calato del tutto. Il sole già ha preso di mira il giaciglio di Palmarola dove adagiarsi per la notte.
Durerà per l’intero anno il ricordo di questa giornata. Ciascuno con sé e col vino. Privo di maschera sociale, di vestito professionale, di ritegno psicologico. L’ho capito dalle risate: erano spavalde, rumorose, cordiali. Colpa del vino ? No, ‘merito’ semmai! L’umanità nella sua autenticità!
Faticherò anch’io a risalire le pendici del monte. Ho deciso, mi fermerò qui, in questo spiazzetto antistante la cantina. I versi delle berte (i parlanti) di ritorno al nido, mi terranno sveglio.
Domani saprà di vinaccia ogni balza dove diffonderò il profumo dell’autunno.