Che cosa c’è laggiù, nella notte eterna delle alte profondità? Imbarchiamoci su una ideale batisfera e andiamo a dare un’occhiata al leggendario mondo degli abissi.
Quando, il 21 luglio 1969, l’astronauta americano Neil Armstrong posò il piede sulla Luna, un grande sogno dell’esplorazione dello spazio divenne realtà, eppure, pur proiettato verso altri pianeti e altri orizzonti, l’uomo ancora non ha scoperto del tutto il fondo degli oceani, tutt’oggi in ampia parte inesplorato: in particolare, le aree più profonde, quelle oltre i -1000 metri, l’habitat più grande e più uniforme del nostro pianeta. Sembra incredibile, eppure il fondali abissali a oltre -1000 metri sono circa l’80 per cento dell’area del globo ricoperta dal mare.
Ma che cosa c’è mai laggiù? Quali forme di vita si nascondono nelle fasce d’acqua che definiscono gli abissi marini? Si tratta di organismi particolari, forme di vita con caratteristiche in funzione dell’ambiente in cui vivono, secondo la teoria evoluzionistica che insegna come “sia l’ambiente a fare la specie”.
Prima, dunque, di esaminare alcune delle specie marine delle grandi profondità, è il caso di riportare alcune caratteristiche fisiche e chimiche di questo habitat, specificando che le quote comprese tra -150 e -1000 metri definiscono la zona epipelagica, da -1000 a -2000 metri si estende la regione batipelagica e, infine, al disotto di -2000 metri troviamo la zona abissopelagica.
Con il termine abissi, comunque, nel parlare comune siamo soliti indicare le grandi profondità al di sotto della zona eufotica, cioè la zona dove persiste la luce.
Luce, salinità, temperatura, ossigeno, pressione
Sono questi i grandi parametri che definiscono un ambiente acquatico: il livello di luce, il grado di salinità, la temperatura, la quantità di ossigeno e la pressione idrostatica. In seguito, vedremo come la vita degli abissi “si formi” intorno a queste variabili.
In acque abissali non c’è luce: a -1000 metri, l’unica luce esistente è quella della bioluminescenza, la luce chimica prodotta da alcuni organismi marini, tra cui particolari batteri.
Per quanto riguarda la salinità, fra strati profondi e strati superficiali non vi sono grandi differenze: la salinità, infatti, dopo qualche centinaio di metri sotto la superficie si stabilizza su valori oscillanti intorno al 34-35 per mille.
Tra -500 e -1000 metri la temperatura è di circa 5-6°C, con una costante diminuzione mano a mano che si procede verso il fondo, fino a raggiungere valori diversi in funzione delle varie aree geografiche. Ad esempio, all’equatore, a -3000 metri, si registrano 1-2°C, mentre ai poli, alla stessa profondità, si raggiungono 0°C. Scendendo oltre i 3000 metri, la temperatura non subisce ulteriori variazioni ed è costante per tutto l’anno, cioè non è influenzata dalle stagioni.
Una grande differenza tra strati d’acqua superficiali e strati d’acqua abissali si registrano per quanto riguarda la percentuale di ossigeno, un gas che “giunge” all’acqua attraverso due vie: il contatto con l’atmosfera e la fotosintesi clorofilliana della flora marina. Negli abissi non ci sono organismi foto-sintetizzanti poiché non c’è luce, quindi è assente il fenomeno di produzione di ossigeno. Inoltre, la piccola quantità di ossigeno esistente viene impiegata nella respirazione e nell’attività batterica. In base a tutto ciò, negli abissi marini l’ossigeno è molto scarso. A quelle quote si registra il cosiddetto “strato minimo di ossigeno”, con valori anche più piccoli dello 0.5 millilitri di ossigeno per litro d’acqua. Tutto ciò comporta strani fenomeni: ad esempio, la degradazione della materia organica di animali morti è molto rallentata, proprio perché la “combustione fredda” della decomposizione necessiterebbe di ossigeno.
A tal proposito, riportiamo un aneddoto singolare: nel 1968, il sommergibile Alvin dell’Istituto Oceanografico del Massachussets in seguito a un’avaria affondò e si adagiò a 1540 metri di profondità (l’equipaggio riuscì a salvarsi). L’Alvin fu recuperato dopo un anno e si osservò che la colazione dell’equipaggio, grazie alla scarsissima presenza di ossigeno, si era conservata in ottimo stato.
Al contrario di quanto si verifica per l’ossigeno, a grandi profondità è molto alta la quantità di anidride carbonica (CO2).
Sappiamo che la pressione dell’acqua viene ben sopportata dagli animali marini, che, essendo costituiti da una cospicua quantità d’acqua ed essendo l’acqua incomprimibile (in realtà è molto poco comprimibile), bilanciano la pressione idrostatica dell’ambiente con quella dei liquidi interni. Ciò è un principio valido, ma a quelle quote (ad esempio, a -1000 metri sott’acqua sopra ogni centimetro quadrato di superficie grava il peso di un quintale) l’acqua acquista una pur minima comprimibilità, sufficiente ad agire sulle membrane delle cellule degli organismi abissali. Questi ultimi, dunque, hanno elaborato specifici sistemi di autoprotezione e sono stati battezzati, grazie a questa loro caratteristica, “specie euribate”.
La vita degli abissi
Come sono strani i pesci abissali! A volte sono veri e propri mostri, come la vipera di mare, con lunghi denti sottili e sporgenti, oppure come il pesce a specchi, con la scatola cranica che sembra la carlinga di un aereo da caccia, tutta a settori trasparenti.
Il pesce vipera, Chauliodus sloani, detto anche vipera di mare, è un pesce d’acqua salata che appartiene alla famiglia degli Stomiidae. Vive negli abissi delle acque tropicali e temperate di tutti gli oceani. È munito di una mandibola disarticolabile che gli consente di divorare prede di grosse dimensioni. È anche dotato di bioluminescenza; il pesce vipera, in particolare, attira le proprie prede con circa 350 organi luminosi all’interno della bocca
Fortunatamente, oltre a osservarne disegni e rare fotografie, in alcuni posti questi strani esseri della notte abissale si possono addirittura vedere dal vero.
Uno di questi “posti speciali” è lo Stretto di Messina, dove accadono cose straordinarie. Il fenomeno è dovuto al fatto che quando la corrente che attraversa lo stretto si inverte, là dove i fondali “sono in salita”, ovvero quando salgono da quote profonde a poche decine di metri, la massa d’acqua in ascesa diventa una sorta di “cucchiaione”, che raccoglie tutto e porta a galla (per la gioia del professor Francesco Costa, eminente biologo). E’ anche questo il motivo che spiega perché sul lido di Palizzi si trovano i famosi pesci batiali spiaggiati, tra cui anche la succitata vipera di mare, a volte viva e vegeta a un passo da riva, che non indugia a piantarvi i denti nelle dita se la raccogliete dall’acqua, ma quei denti sono così sottili e aguzzi che vi entrano nelle carni in maniera indolore, come gli aghi delle siringhe “usa e getta”.
E’ comunque un fatto che ultimamente aumentano i casi di specie da alte profondità (anche al di sotto dei 1000 metri) che assommano in superficie. Come i totani giganti, che nelle acque costiere del Mediterraneo si sono presentati praticamente a galla diverse volte negli ultimi due o tre anni. Lo stesso avviene per i calamari giganti, che in Atlantico sono una realtà, ma prima difficilmente giungevano in superficie.
Dissezione di un calamaro gigante casualmente pescato al largo delle coste australiane
Bocche enormi e altre “stranezze”
L’ambiente abissale, difficile per la vita, fa sì che gli animali che vivono laggiù presentino caratteri morfologici decisamente singolari. Ad esempio, a causa della scarsità del cibo, molti pesci posseggono una bocca in grado di aprirsi a dismisura nell’eventualità di dover fagocitare una preda addirittura più grande di loro. In ciò ricordano un po’ il serpente, che, anche quando è poco più spesso di un dito, se deve ingurgitare un grosso uovo riesce a dilatare le mascelle in maniera sufficiente. Non ci si può permettere, infatti, di fare gli schizzinosi: la vita in profondità è rara e si deve aggredire quello che si incontra, anche a costo di dover ingoiare un boccone più grande del proprio corpo.
Una caratteristica comune a molti pesci abissali è la presenza di fotofori, organi luminescenti distribuiti lungo il corpo, ordinatamente o sparsi. Sono state fatte diverse ipotesi sull’effettiva funzione dei fotofori: ad esempio, sembra che possano essere un elemento di attrazione per le prede, che si avvicinerebbero incuriosite, a loro volta convinte di predare. Inoltre, gli organi bioluminescenti sono un elemento di attrazione di maschi e femmine nei periodi di riproduzione.
La colorazione dei pesci abissali non è appariscente, perché eventuali colori non sarebbero visibili. La loro pelle, infatti, è scura, mentre i crostacei sono in genere rossi.
Singolare è la “questione occhi“: vi sono, infatti, pesci abissali che ne sono completamente privi, avendo sviluppato in maniera ottimale altre capacità percettive, mentre altri posseggono occhi molto grandi, con la caratteristica di una retina e di un cristallino molto più ampi di quelli dei pesci degli strati d’acqua illuminati, e con la pupilla molto dilatata. Occhi sì fatti, detti “telescopici”, riescono a cogliere eventuali, debolissime radiazioni luminose e la bioluminescenza prodotta dai fotofori.
Un discorso più approfondito merita proprio la retina dei pesci abissali, costituita da un numero molto alto di bastoncelli. Questi sono molto lunghi per aumentare la superficie recettiva, e sono collegati tra loro in maniera tale che molti bastoncelli insieme fanno capo a un’unica fibra ottica. Nel caso, infatti, che una debole radiazione luminosa non fosse sufficiente a eccitare una singola cellula, vi riuscirebbe la somma degli stimoli di più cellule.
Tra i caratteri morfologici delle specie abissali, in particolare di quelle bentoniche (a contatto con il fondo), si osservano superfici di appoggio molto ampie oppure costituite da prolungamenti delle pinne con estremità opportunamente formate, per far sì che il pesce non affondi nel sedimento molle.
In tema di mostri…
Il mio amico Ernesto Prudente, memoria storica delle isole Ponziane, mi donò una fotografia che fu scattata a Ponza nel 1934. Rappresenta uno strano pesce, per molti versi somigliante a un selaceo (uno squalo), con la “novità” di un paio di zampe palmate come quelle di una papera, situate nella zona caudale. Che cosa mai sarà stato? Forse un fossile vivente?
Il professor Agnisola, docente di fisiologia, e la professoressa Motta, docente di anatomia evolutiva e comparata, si sono trovati d’accordo sul fatto che le ipotetiche zampe di papera sono una malformazione morfologico-genetica. La professoressa Motta ha identificato lo strano organismo della fotografia: sembra che si tratti di un Oxinotus centrina, con un muso prominente dotato di due marcate narici che ricorda quello di un maiale.
Dott. Adriano Madonna, biologo marino, Laboratorio di Endocrinologia Comparata, Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Bibliografia
Olga Mangoni, Biologia marina, Università di Napoli Federico II;
Chiara Motta, Organismi marini, Università di Napoli Federico II;
G. Cognetti, M. Sarà, G. Magazzù, Biologia marina, Calderini;
G. Ciancia e G. Guerriero, Lezioni zoologia, Università di Napoli Ferico II;
E. Padoa, Manuale di anatomia comparata dei vertebrati, Feltrinelli;
C. Agnisola, Lezioni di fisiologia degli organismi marini, Università di Napoli Federico II; Adriano Madonna, Articoli pubbblicati nel periodico “Il Subacqueo”, Edizioni La Cuba.
Immagine di copertina: da National Geographics, foto di Brian Skerry
Abyss. Locandina del film di James Cameron del 1989
silverio lamonica1
21 Settembre 2014 at 10:19
La foto del 1934, donata da Ernesto Prudente al Prof. Madonna, ritrae il nonno di Carmelina Bonlamperti. Lo strano pesce fu confuso, a suo tempo, col celacanto. Il Prof. Madonna potrebbe precisare, a questo punto, differenze ed eventuali analogie tra le due specie ittiche.
francesco ferraiuolo
21 Settembre 2014 at 10:56
Per la cronaca, copia della foto fu data ad Ernesto da mio cognato Peppino Bonlamperti, per essere pubblicata in un suo libro. L’uomo ritratto nella foto, che pescò quello strano pesce, è Damiano Tagliamonte, nonno materno di Peppino (e di mia moglie Carmelina, citata dall’amico Silverio Lamonica, nonché di Carlo, Maria Rosaria e del compianto Raffaele Bonlamperti).
Sandro Vitiello
21 Settembre 2014 at 12:26
Nei primi anni ’70, d’estate, pescavo a pesci spada con le coffe, sulla barca di mio padre.
Eravamo in quattro in barca e stendevamo sulla superficie del mare alcune centinaia di ami in una zona proprio sulla “fossa di Ponza”.
Un giorno di questi abbiamo avuto la sventura di pescare un tonno enorme che si portò sul fondo del mare più di duecento ami.
Chiedemmo aiuto ad un’altra barca -la Capricciosa- e insieme, sollevando contemporaneamente le due estremità della coffa finita in fondo al mare, portammo in superficie un pesce di almeno trecento chili.
Gli ami prossimi a quel pesce avevano attaccate bestie marine mai viste prime.
Alcune di queste avevano le caratteristiche dei pesci raccontati dal professor Madonna.
Mi colpì soprattutto il fatto che questi pesci, lunghi anche un metro e mezzo, avevano una consistenza gelatinosa che li faceva sciogliere al sole ormai alto di quel giorno.
Purtroppo non avevamo dietro macchine fotografiche.
Adriano Madonna
22 Settembre 2014 at 06:13
Rispondo a Silverio Lamonica, che chiede quali sono le differenze tra il pesce porco e il celacanto.
Il pesce porco (Oxynotus centrina) e il celacanto (Latrimeria chalumnae) sono due specie diverse. Il pesce porco è un piccolo squalo, quindi una specie appartenente alla classe dei condroitti, caratterizzati da uno scheletro molto ridotto e di natura cartilaginea. Il celacanto, invece, è un pesce osseo (classe degli osteitti) ed è considerato un fossile vivente, poiché le sue origini risalgono a circa 400 milioni di anni fa. Questa specie rappresenta la più antica linea evolutiva dei pesci nota sino a oggi. In ogni caso, il numero di celacanti nel mondo è molto più alto di quanto si credeva sino a pochi anni fa. A profondità non eccessive, intorno a un centinaio di metri e anche molto meno, sui fondali delle Comore, della Tanzania, del Mozambico e di altri Paesi, il celacanto è vivo e vegeto. Lo studio del DNA ha confermato le antiche origini di questo pesce, che stupisce anche per le proprie fattezze, come la pinna caudale (la coda) a triangolo e divisa in tre lobi e le pinne dorsali e ventrali situate all’apice di corti e robusti peduncoli.
La foto che mi donò il buon Ernesto, comunque, sembra proprio che raffiguri un pesce porco. Resta il busillis di quella sorta di zampe di papera nella metà posteriore del corpo.
Colgo l’occasione per chiedere a Sandro Vitiello dove erano state calate le coffe quando furono presi il pesce di trecento chili e le strane specie abissali che si scioglievano al sole. Forse in prossimità delle Formiche? Pongo questa domanda perché qualche “cosa strana” tirata su dalle profondità del mare di Ponza è venuta, in passato, proprio dal mare delle Formiche, compreso il pesce porco della fotografia (come mi raccontò Ernesto)
Grazie per l’attenzione e saluti a tutti.
Adriano Madonna
Sandro Vitiello
22 Settembre 2014 at 09:57
Le coffe di cui si scrive erano posizionate più a ponente, verso sud ovest a 15-20 miglia da Ponza.
I ricordi sono confusi ma considerando il numero di ami si parlava di almeno duemila metri di profondità.
Inoltre il tonno, oltre ad avere dei morsi sulla pelle, era come sporco di fango(?).
Ricordo che l’unico pesce strano messo a bordo era lungo almeno un metro e mezzo, aveva un corpo “a bandiera triangolare” e una testa smisurata.
La testa era quasi tutta costituita dalla bocca.
Il colore era di una tonalità tra il rosa e l’arancio, molto lieve.
In realtà sembrava non avesse pelle perchè si riuscivano a vedere le viscere.
Chiesi il nome a mio padre che mi rispose: “E’ nù squagliasole”.