La lunga treccia non c’era più. Era ancora adolescente, quando pazientemente se l’era fatta tagliare dai genitori, convinti che solo accorciandole quei lunghi capelli, avrebbe potuto crescere. L’aveva avvolta in un panno e messa in un cassetto del comò.
Al ritorno da New York, nel 1961, non solo la treccia non c’era più, ma non c’era neanche il comò e neppure la stessa casa paterna. Era stata spazzata via dalla società mineraria di bentonite, che stava sconvolgendo e distruggendo un intero villaggio.
Dopo dodici anni d’America fu un ritorno tristissimo.
Il villaggio con la casa paterna distrutto dalla Miniera
Gelsomina Rivieccio, oggi una vispa novantaduenne, ricorda così quel suo primo ritorno a Ponza.
Aveva lasciato l’isola a malincuore, abbandonando i sogni dell’infanzia e della gioventù che si augurava di poter rivivere al ritorno e invece si era come spalancato un burrone in cui precipitavano tutte le sue speranze. Tutto era cambiato. In peggio.
Di ritorno a Ponza quest’estate, grazie al comune amico Salvatore Sandolo, ha voluto raccontarci la sua lunga vita, vera memoria di un tempo ormai lontano e perduto.
Cominciamo dall’inizio. Quando sei nata e qual’è stata la tua vita da bambina.
“Sono nata a Ponza il 2 luglio 1922. Appartengo alla famiglia Rivieccio, che aveva casa alla Piana, sulla collina prospiciente Cala dell’Acqua. Lì sono vissuta fino a quando non sono emigrata.
Sono nata in una bellissima e grande casa. I miei genitori erano contadini e producevano un ottimo vino che quelli di Ponza porto venivano a comprare ogni anno e che trasportavano con gli asini. I “ciucciari” dei Conti arrivavano la mattina per prendere i barili del nostro vino e portarli al Porto. Io ho studiato nelle scuole nei pressi della casa di “Bertuccio”, che gestiva un piccolo campo di bocce, dove gli uomini passavano qualche ora la domenica.
Io andavo molto bene a scuola e avrei voluto continuare gli studi. I maestri erano tutti di fuori Ponza. Ero molto contenta e felice”.
Ma alle bambine non era consentito studiare allora.
“Proprio così. Però mi fu offerta la possibilità di andare a vivere a Roma a casa dei miei zii Giovanna e Luigi. Dal 1939 al 1942. Lì frequentai un corso di taglio e cucito, che poi è stato il mio lavoro anche a New York. Ritornata a Ponza, tornavo alla vita ordinaria e lenta dell’isola dove a noi giovanette non restava che frequentare le Suore e far parte dell’Azione Cattolica. Troppo poco per una come me che nutriva delle ambizioni, seppure a misura dell’isola”.
Gelsomina con l’Azione Cattolica: lei è la terza da destra in piedi con la gonna con una striscia scura in basso, con in mano forse una pergamena
Fino a che ti sposasti e andasti in America.
“Sì, il matrimonio, fu per me anche un mezzo per evadere dalla povertà e dalla mancanza di lavoro che al tempo Ponza non offriva. In quegli anni, che ricordo con incanto, un giovane, molto povero, si era innamorato di me. Tanto povero che per poter studiare si era piegato a seguire gli studi presso un seminario. Al momento dei voti, però, non se l’era sentito di continuare e dovette rientrare all’isola, rinunciando agli studi. Era povero e ostinato, e mi scriveva delle lettere appassionate in cui con il linguaggio del tempo cercava di farmi conoscere i suoi sentimenti. A volte i miei genitori lo invitavano a pranzo, perché spesso non aveva neanche di che cibarsi. Cercava in tutti i modi di emergere, ma le condizioni del tempo non glielo permettevano. Dopo tanti anni ricordo ancora il suo sguardo e la sua voce emozionata”.
E la guerra come fu a Ponza?
“La guerra non arrivò direttamente a Ponza, se non per i lutti che colpirono molte famiglie per i loro cari caduti in guerra. Ma la fame era tanta e stentavamo a sopravvivere. Soprattutto i bambini erano eternamente affamati e alla ricerca di qualcosa da metter sotto i denti. E poi ricordo con tristezza la tragedia del traghetto postale S. Lucia affondato dagli inglesi al largo di Ventotene il 26 luglio 1943.
La sera prima avevo partecipato alla festa di matrimonio di Lucia Stimma, sorella di “Tic Tac” (leggi qui – NdR).
Ricordo come adesso, poche ore prima che si imbarcasse per il viaggio di nozze che per lei e il marito saranno fatali, che mi mostrava tutta contenta la bella collana che il marito le aveva appena regalato. Che tragedia!”.
Una vita povera, priva di soddisfazioni.
“Una vita povera e semplice, ma se eravamo ingenue, vivevamo serene. Nelle nostre famiglie, certo con poca libertà, ma era la condizione normale al tempo. Quando anche lo spostamento di poche centinaia di metri costituiva un viaggio verso l’ignoto. Ricordo che vissi come un dramma il matrimonio di mia sorella Maria Civita con un giovane del Montagnone, che dista non più di un chilometro dalla Piana e dalla nostra casa. A lei dicevo, addolorata e per farle pesare l’abbandono, che andava a vivere in un luogo dove non avrebbe potuto più mettersi le scarpe con i tacchi. Il Montagnone, infatti, era al tempo una collina con stradette piene di fossi e pietre”.
E poi il grande salto al di là dell’Oceano:
“Andai a New York, sposando mio marito Geppino Iodice, nel 1949. Io non ero molto contenta di partire, di lasciare la mia famiglia, tutti i ricordi, le mie amiche. A New York andai ad abitare alla 151a strada, che era abitata da tanti ponzesi. Avevo difficoltà con la lingua, i neri mi facevano paura. Per andare in fabbrica, dove lavoravo come sarta, prendevo un autobus e non esperta, il primo giorno diedi un dollaro all’autista, che mi cambiò la banconota in centesimi perché io li mettessi nell’apposita macchina dei biglietti. Inutilmente: io mi tenni il dollaro e l’autista per tutto il viaggio mi invitò in una lingua a me del tutto sconosciuta a fare il biglietto. Poi la lingua americana non l’ho mai imparata veramente, anche se la capisco abbastanza. Nonostante tanti anni di lavoro, una famiglia, un figlio. La mia mente è come rimasta ferma a Ponza”.
Quindi per te non è stata una vita in cui ti sei riscattata dalla povertà dell’isola da cui provenivi.
“Certo ho avuto una famiglia, un figlio che è molto importante per me, un lavoro che mi piaceva, ma non mi sono mai abituata all’America. Forse perché mi ci sono trasferita che ero grande, a ventisette anni, ed ero già troppo radicata a Ponza”.
E a Ponza sei tornata spesso?
“La prima volta nel 1961, quando ebbi il trauma della scomparsa della mia casa originaria, di tutto, dei miei ricordi più preziosi, di cui le trecce erano solo una minima parte. La seconda, purtroppo, in occasione della morte di mio fratello Leonardo, nel 1965”.
E adesso?
“Dopo la morte di mio marito cerco di venire a Ponza, almeno d’estate, un po’ più spesso. Nella vana ricerca della parte più segreta e sognata della mia vita.
Quante volte, quando ero in America, ho immaginato di tornare a vivere nella mia isola. Un sogno che posso realizzare purtroppo solo per pochi mesi all’anno.
Ma sono contenta lo stesso di poter respirare ancora l’aria del mio paese, incontrando parenti e amici, che però stanno scomparendo uno dopo l’altro. Ma questa è la vita”.
Gelsomina Rivieccio, oggi, a 92 anni