Gent. Redazione,
nel corso della presentazione dell’ottimo libro della scrittrice Camilla Poesio “Il confino fascista – L’arma silenziosa del regime”, avvenuta il 4 luglio 2014 nell’ambito delle manifestazioni indette dal Comitato Carlo Pisacane e dall’Associazione Ponza Racconta per commemorare il 75° anniversario della chiusura della colonia dei confinati di Ponza, si è fatto cenno all’idea del confino-villeggiatura, fatta circolare dal regime (e da taluni ripresa in questi ultimi tempi) .
Al riguardo, ho scritto un pezzo dal titolo “L’ameno luogo di confino”, inserito nel volume edito dal Rotary Club di Formia-Gaeta “Le città sul Golfo di Gaeta – arte, natura, storia e tradizioni”, presentato il 24 maggio 2014 presso il Teatro Paone di Formia. In tale volume sono inseriti scritti di autori vari, tra i quali anche quello dell’amico Giuseppe Mazzella, redattore di Ponza Racconta.
Con la presente, vi trasmetto l’allegato file concernente il mio scritto.
F. F.
Trattando della colonia dei confinati politici di Ponza, un mio amico, conquistato dall’isola, mi ha scritto: “è davvero paradossale che Ponza sia stata scelta come un luogo ove sopprimere la diversità di pensiero e ogni altra; un’isola che con i suoi faraglioni multicolori esalta la diversità insopprimibile, la variegata eccentricità della natura che prelude a quella della cultura: le colate gialle di zolfo, quelle bianche di caolino, le striature rosso di ferro e le scogliere scure di basalti e quelle chiare di calcari. E le venature rosate che attrassero il Dolomieu, i ricami del vento sulle pareti di Chiaia di Luna, i muri bugnati ai faraglioni sotto gli Scotti, le colonne gotiche della cattedrale di pietra a Palmarola, e le maschere mostruose dei calcari bucati, e il cuore sanguinante del gigante innamorato…”.
E’ paradossale, ma così è stato! La vicenda della deportazione non è cominciata col fascismo; essa ha origini lontanissime nel tempo, che hanno determinato l’infame equazione: Ponza uguale luogo di prigionia, da cui essa si è affrancata solo con l’avvento della democrazia nel nostro paese. Ma per quanto riguarda il confino politico fascista, sembra incredibile, una delle ragioni che contribuirono a determinare, in maniera non trascurabile, la sua istituzione nell’isola di Ponza fu proprio l’amenità dei luoghi di questo particolare ecosistema.
Nel famoso discorso dell’Ascensione, pronunciato alla Camera il 26 maggio 1927, dedicato ampiamente alla portata delle conseguenze derivanti dalle leggi eccezionali del 1926, Mussolini, alla previsione della deportazione di tutti i cittadini “sospetti di antifascismo” o “dediti ad una qualsiasi attività controrivoluzionaria”, aggiunse la raccomandazione ai prefetti di non procedere con eccessive assegnazioni al confino, perché ciò avrebbe dato luogo ad un duplice effetto: da una parte, avrebbe creato dei “falsi martiri” e dall’altra, avrebbe accreditato all’estero l’idea di un antifascismo ancora piuttosto vivo e consistente.
D’altra parte, la mancanza di minacce insurrezionali, che evitava la necessità di massicce deportazioni, facilitava al regime una tattica repressiva più ”soft”, la cui immagine veniva ampiamente diffusa all’estero dalla stampa amica, onde fornire elementi tranquillizzanti all’opinione pubblica internazionale. Si cercava, così, di contrastare la propaganda contraria svolta all’estero da parte dei fuorusciti antifascisti, accreditando l’idea che si facesse il minimo indispensabile per isolare coloro che disturbavano il progresso dell’Italia fascista mediante la messa in atto di un’azione bonaria e paternalistica ai fini redentivi.
Da qui la scelta delle isole come luogo di confino, che con le loro incomparabili bellezze davano il senso della “villeggiatura” ma, nel contempo, data la loro particolare posizione geografica, rendevano più agevole il controllo dei più pericolosi elementi antifascisti.
Ponza, annoverata tra le più belle isole italiane, non poteva mancare e, quindi, inevitabilmente, fu scelta.
Qui dall’inizio degli anni ’20, dopo la battuta d’arresto dovuta ai tanti patimenti determinati dalla prima guerra mondiale, aveva ripreso vigore un nuovo fervore nell’imprenditoria locale dei settori della pesca, in particolare quella delle aragoste e del corallo, nonché del commercio marittimo, e molti guardavano con speranza alla possibilità di poter presto sfruttare turisticamente le incomparabili bellezze naturali dell’isola.
Non deve destare scalpore, pertanto, se a Ponza, alla notizia dell’imminente istituzione della colonia di confino, si levò una generale levata di scudi, considerato che la vocazione turistica dell’isola era, ormai, una convinzione largamente condivisa nella popolazione. Per fare posto ai confinati politici, nel dicembre del 1927, fu disposto il trasferimento della Compagnia di Disciplina e dei militari condannati da Ponza a Forte Ratti di Genova. Il Direttorio della locale sezione del PNF, che inizialmente l’aveva avversata, pur di scongiurare l’istituzione del confino, si pronunciò per il mantenimento della cennata Compagnia, dopo aver fatto rilevare la perpetuazione “dell’immeritata nomea di residenza tetra e terrorizzante” a fronte di “sentimenti di tradizionale patriottismo e di esemplare fedeltà di Ponza, appellata dallo storico Tito Livio: fedelissima Romae”, che, per questo, avrebbe meritato, invece, di essere valorizzata.
Il Duce, favorevolmente impressionato dalle istanze ponzesi, efficacemente sostenute dal Senatore e Ministro Pietro Fedele, che da qualche tempo si era fatto promotore per lo sviluppo turistico-culturale del litorale del Lazio meridionale, sua zona elettiva, inviò alla Direzione Generale della P.S. una nota con la quale esprimeva la determinazione di non prendere più in considerazione Ponza quale sede di colonia dei confinati e ciò tenendo conto della sua posizione nel Tirreno, delle sue bellezze naturali, nonché degli inconvenienti e del danno che all’isola stessa sarebbero derivati ove il provvedimento avesse avuto attuazione.
Detta nota concludeva con l’invito a “riprendere in esame la questione relativa all’istituzione di nuove sedi di confino e di voler fare al più presto comunicazioni ed eventuali proposte al riguardo”. Ma le aspirazioni turistiche isolane ad essere la “gemma fulgida del Tirreno”, che sembravano destinate finalmente a concretizzarsi, dovettero fare i conti con la concezione del “luogo di villeggiatura”, che, nella sua deformazione professionale, aveva il capo della polizia, Arturo Bocchini.
In un promemoria di ben nove pagine, egli convinse Mussolini a recedere dalla sua precedente determinazione, facendo presente l’oggettiva difficoltà di reperire nuovi luoghi idonei per il confinamento degli oppositori antifascisti nonché, in alternativa, i costi enormi da sostenere laddove si pensasse di realizzare una colonia di confino fuori dall’Italia, nel deserto libico, a Gasr Bu Hadi, località situata a circa cinquecento chilometri a sud-est di Tripoli. Ma, soprattutto, sostenne Bocchini, mandando i confinati in isole come Ponza, di incomparabile bellezza, si sarebbe potuta “sfatare la leggenda tanto cara ai fuorusciti italiani e alla stampa estera ostile al Regime, circa il presunto inumano trattamento usato ai confinati politici”.
Al che Mussolini, sollecitato in una convinzione di fondo già espressa nel discorso dell’Ascensione, ritornò sui suoi passi apponendo a mano sul promemoria n.700/809 della Direzione Generale della P.S., sez. 1a, la seguente annotazione: “Si proceda senz’altro per l’isola di Ponza come sede di confinati politici”.
Il 29 luglio 1928, con l’arrivo del piroscafo “Garibaldi”, proveniente da Ustica, che sbarcò a Ponza 168 confinati, 60 militi della M.V.S.N. e due ufficiali, fu di fatto dato seguito all’apertura della colonia di confino decretata, come abbiamo visto, da Mussolini.
Fu da quel giorno che il regime cominciò a far circolare l’idea del confino – villeggiatura lasciando intendere, come scrisse Corvisieri, che si doveva alla magnanimità del Duce se tanti oppositori non venivano sterminati ma soltanto mandati a soggiornare in isole dall’invidiabile e indiscussa bellezza. In quel “soggiorno” ponzese si svilupparono storie che ineluttabilmente legarono i destini dei residenti, dei confinati e dei carcerieri, in una sorta di triangolazione dove il bene e il male, l’amore e l’odio, la carità e l’egoismo, l’umiltà e l’arroganza, la lealtà e la furbizia, giocarono la loro parte per la costruzione di una vicenda umana speciale, che si svolgeva all’interno dei dinamismi, anche psicologici, indotti da un microcosmo qual è quello di una piccola isola.
Storie di persone, i confinati, sottoposte alla legge della carota e del bastone: la carota costituita dalla bellezza e dalla piacevolezza dei luoghi, dalla “mazzetta”, dalla possibilità dell’alloggio privato, dalla possibilità di studiare e finanche di sposarsi; il bastone costituito dalle continue, arbitrarie ed intollerabili vessazioni e punizioni. Una vicenda umana, però, vissuta all’interno della cinta confinaria e dominata dall’atroce contrasto costituito dall’amenità intrinseca dell’isola, la cui forzata “fruibilità” fu lasciata intendere dalle sirene fasciste come atto di umanità e di bonarietà nei confronti dei confinati, e il reale e triste stato esistenziale che Carlo Rosselli definì, metaforicamente, “vita da pollaio”.
Scena da ‘Un’isola’, di Carlo Lizzani