di Sandro Vitiello
In questi giorni abbiamo avuto modo di fare una interessante degustazione di quelli che vengono chiamati “orange wines”.
Dal nome si capisce che questi vini bianchi hanno un colore che tende verso l’arancio. Chi si occupa della materia sa che viene considerata in maniera negativa questa caratteristica del vino in degustazione.
I vini che evolvono verso questo colore hanno superato la loro stagione migliore e si preparano ad un triste destino: diventare inbevibili.
Sono essenzialmente due le categorie di questo genere di vini: quella che si rifà alla tradizione italiana (friulana-slovena) e quella che si perde nella notte dei tempi, in Georgia, culla dell’arte di fare il vino.
Da qualche tempo un gruppo di temerari, ben distribuiti in tutta la penisola, vinifica parte delle uve con metodi in netta controtendenza con i disciplinari maggiormente condivisi.
Si vinificano le uve bianche come si trattasse di vini rossi. Ad esempio lasciando molto a lungo le vinacce a contatto con il mosto, facendo in modo che la fermentazione a temperature non controllate, solo con lieviti del vino in lavorazione, permetta di estrarre anche dalle bucce tutto quello che madre natura ha messo nel grappolo.
E qui siamo ancora nel solco della tradizione antica italiana.
Non finisce qui: si procede nell’affinamento usando anche vasche di cemento – ormai superate da gran parte dei produttori – e addirittura anfore interrate in cantina, come fa Iosko Gravner nel Collio Goriziano.
Gravner, come altri produttori, si spinge verso la dimensione storica cercando di immaginare vini che appartengono a un passato millenario.
Si lascia inoltre il vino in contenitori aperti, favorendo una certa ossidazione dei vini, fino all’imbottigliamento.
Successivamente si affina il vino anche per diversi anni fino a quando il produttore non ha deciso che ha raggiunto quelle caratteristiche che si sperava ottenere.
Vini complessi, difficili, non paragonabili a quanto abitualmente consumato sulle nostre tavole o al ristorante.
Eppure sono vini con i quali dovremmo avere una certa familiarità.
Per quel che ricordo io, tanti piccoli produttori dell’isola di Ponza – il mio luogo natale – usavano lasciare il mosto con le bucce, anche nei vini bianchi.
Mai usato vasche per il controllo delle fermentazioni.
Lieviti di chissà dove? Manco a parlarne.
L’unica accortezza era l’uso delle damigiane; non tappate però. Quindi ossidazione del vino.
Quel vino si riusciva a berlo soprattutto perchè veniva consumato in tempi brevi ma già in prossimità dei primi caldi cambiava e diventava duro da bere.
Oggi, con gli “orange wines”, si sperimenta un ritorno alle antiche pratiche di cantina e i vini che abbiamo assaggiato raccontano una storia diversa, complicata da definire ma che merita attenzione.
Torniamo alla nostra serata.
Abbiamo assaggiato in successione sette vini.
Arrivavano un po’ da tutta Italia; erano presenti un pigato ligure, un tocai del Veneto, uno di uve cataratto – zona Camporeale di Palermo -, addirittura un pinot grigio del Friuli prodotto col metodo Solera (ossidazione forzata tipo Marsala), un blended di uve friulane di Radikon molto impegnativo e per finire un verdicchio passito prodotto dalla cantina marchigiana di Barone Pizzini, grande azienda della Franciacorta.
Fuori programma è arrivata anche una riserva di Verdicchio di Jesi San Paolo 2004 sempre dell’azienda marchigiana di Barone Pizzini.
Un vino non più in commercio da diversi anni (erano poche bottiglie, una riserva personale del direttore dell’azienda presente alla serata) che ha raggiunto vette di ineguagliabile valore in degustazione.
Che dire? Non sono vini da tutti i giorni.
Se il consumo ha decretato il successo dei vini che abitualmente beviamo la ragione è che, prima di tutto, sono più facili da avvicinare.
Eppure gli orange wines raccontano una storia molto particolare.
Ad esempio oltre al modo di trattare le uve in cantina, spesso si associa un lavoro in vigna che si limita ad un po’ di zolfo e di rame.
Non si usano lieviti particolari, in fermentazione, se non quelli sviluppati autonomamente dalle uve, non si usa – o se ne usa pochissima- anidride solforosa per la stabilizzazione e via discorrendo. Vini biologici quindi o addirittura bio-dinamici.
Stiamo ancora percorrendo strade inesplorate – anche se antiche – eppure io sono convinto che nel tempo il mercato di questi vini crescerà uscendo dalla attuale dimensione pionieristica.
Sono vini questi che raccontano qualcosa in più della “perfezione estetica” dei nostri vini abituali.
Aggiungono alle loro caratteristiche molto nette una sensazione, un retrogusto fatto di profumi e sapori molto legati a quello della terra.
Se nei vini classici troviamo spesso quelle sensazioni eteree dei luoghi in cui vengono prodotti, negli “orange wines” percepiamo la forza delle radici di quelle piante che hanno allevato quei grappoli.
A seguire l’elenco dei vini degustati:
Spigau Crociata acini rari 2009 – Le rocche del gatto di Salea d’Albenga (Savona)
Amphora 2011-Castello di Lispida di Monselice (Padova)
Catarratto Saharay 2009-Porta del vento di Camporeale (Palermo)
Pinot grigio metodo solera – Specogna di Corno di Rosazzo (Udine)
Verdicchio di Jesi Classico Riserva 2004 – Pievalta Castelli di Jesi
Oslavje 2007 – Radikon di Gorizia
Verdicchio dei castelli di Jesi doc passito Curina 2011 – Pievalta di Maiolati Spontini (Ancona)
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