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La parola stracquo non è nel vocabolario della lingua italiana, eppure sembra quasi una traduzione della nostra espressione dialettale più verace: robba stracquata, termine utilizzato dai nostri predecessori, per indicare tutto ciò che il mare ci portava a terra.
Sarà forse la ‘o’ finale a dare l’impressione – almeno a me – non più di un termine dialettale ma in lingua, o forse perché associare il termine stracquo a quello di arte lo ha fatto diventare, per così dire, aggiustato nella forma e modificato nel significato.
Perciò qui, dopo aver apprezzato lo stracquo nella sua versione moderna, propongo un passo indietro; a quando esso era invece figlio della necessità.
Lo scriverò perciò senza la ‘o’ finale, così come lo pronunciamo: stracqu’
Fino a tutti gli anni ’50 del secolo scorso, ‘u stracqu’ era un’opportunità.
Praticamente nulla di quel che il mare portava all’isola veniva sprecato o ignorato, al contrario più indietro si va nel tempo e più forte è stata la corsa all’accaparramento di tutto ciò che stracquava.
L’elemento principe d’i stracqu’ antichi era la legna in ogni sua forma, dimensione e lavorazione: tronchi, tronchetti, tavole, fasciame o altro.
Quando tutta la cottura dipendeva dalla disponibilità di legna – e Ponza ne divenne rapidamente carente con l’incremento della popolazione e delle coltivazioni -, ogni pezzetto di fascina veniva raccolto, riposto e difeso dagli altri possibili contendenti.
Zannone e Palmarola erano le principali fonti di approvvigionamento di legna.
Per un po’ di legna si finiva in galera, ci ricorda il Tricoli in qualche passaggio della sua Monografia.
Certo si poteva comprare il carbone, la carbonella, ma costava, e soldi non ne giravano. Allora il mare diventava un’importante fonte per fare riserva: la più economica di tutte!
Dopo una tempesta, a qualsiasi ora del giorno e della notte, appena il mare si andava calmando, gente di ogni età si aggirava per spiagge e scogli o si avventurava con le barche nei punti più impervi per impadronirsi di qualsiasi cosa il mare avesse lasciato (leggi qui e qui).
Il mare portava a terra, seppure in minor misura, anche pezzi di corda, di spago, bottiglie e bottiglioni, o qualsiasi oggetto che fosse riuscito a resistere alla forza del mare e della salsedine.
Purtroppo, bisogna dire che spesso parte di quel che spiaggiava poteva anche essere la conseguenza di naufragi.
Ma non si andava troppo per il sottile a riflettere su questa eventualità, ogni cosa recuperata era utile, anzi utilissima, e trovava un suo riutilizzo.
È appena il caso di notare come, in un mondo povero, pure ‘u stracqu’ fosse limitato per tipologia e quantità.
Di questo stracqu’ antico voglio raccontare un paio di episodi simpatici, capitati all’incirca un secolo fa – e di cui mio padre si divertiva a farmi partecipe – che nel contempo esprimono anche bene l’atmosfera dell’epoca.
In attesa di vedere in mostra i lavori dello “Stracquo, l’arte che viene dal mare”, guardiamo alcuni disegni realizzati da Silverio Mazzella ‘Al Brigantino’ su pezzi di legno stracquati dalle nostre parti.
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[Quand’ iévem’ marina marina… scoglie scoglie..! (1) – Continua qui]