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Siamo ad un nuovo 25 aprile, giorno della liberazione dai Tedeschi e dai fascisti della repubblica di Salò.
È una giornata fondativa per l’Italia democratica e repubblicana su cui, sebbene siano trascorsi 69 anni, è ancora utile riflettere. Anzi, è forse necessario.
Da interviste effettuate negli ultimi anni, riguardanti l’essenza di questa giornata festiva, è emerso che gli italiani non ricordano più da chi ci si è liberati.
Si sta perdendo la memoria delle radici della nostra storia e questo ci fa intravvedere il baratro in cui la coscienza collettiva sta precipitando.
Aver perso il senso delle lotte avvenute intorno alla metà del ’900 in Italia per riconquistare la libertà e acquisire i diritti sociali e politici perduti durante il fascismo, o addirittura mai avuti, come quello di voto per le donne, significa non conoscere il prezzo di sangue e dolore pagato dai nostri padri per consentirci di vivere liberi in una democrazia.
È forse per questo che, oggi, si sottovaluta l’autonomia di pensiero e ci si affida al pensiero e alle decisioni di altri senza richiedere il diritto alla partecipazione.
Negli ultimi decenni poi, un deleterio revisionismo ha sovvertito il senso della patria equiparando la lotta di liberazione a quella per l’oppressione.
In nome della morte che rende tutti uguali, si sono posti sullo stesso piano i repubblichini di Salò ed i partigiani, sottacendo i differenti valori per cui avevano combattuto.
In precedenza, non va dimenticato che c’era stato l’insabbiamento dei documenti comprovanti il loro coinvolgimento nelle stragi compiute dai tedeschi dall’8 settembre del ’43, mentre risalivano la penisola.
Lo storico De Luna ha spiegato chiaramente come l’assenza di processi e di pene da scontare abbia prodotto un ricordo così lacerante della guerra civile di quegli anni che si è determinata una forte resistenza ad ogni tentativo di “pacificazione”: il perdono può avvenire solo se c’è il pagamento della colpa.
I morti come esseri umani vanno pianti, ma i valori per cui sono morti vanno valutati: se sono in netto contrasto con quelli che sono alla base della nostra convivenza civile, non possono essere assunti a patrimonio comune e chi è morto per essi non può essere considerato degno della memoria patria.
E qui non si tratta di dire che la storia la scrivono sempre i vincitori che, lo ricordiamo e sottolineiamo, provenivano da formazioni culturali e politiche diverse, dai liberali, ai cattolici ai comunisti passando per gli appartenenti a Giustizia e Libertà, al partito Repubblicano, a quello Socialista. Mancavano solo i fascisti e i monarchici, gli sconfitti che non avrebbero mai, comunque, aderito alla stesura di una carta costituzionale fondata su valori antitetici ai propri.
Purtroppo questo dato di fatto, oggi, non è più considerato: la nostra Costituzione è ritenuta una carta da poter stravolgere a piacimento senza un vero confronto né una seria discussione derivanti dalla legittimazione di un mandato dei cittadini.
Poche, pur se autorevoli, sono le voci che si sono levate a protestare, testimonianza del fatto che l’assenza di memoria indebolisce un popolo che può lasciarsi spogliare dei diritti acquisiti col sangue e con la lotta senza batter ciglio, specie se ridotto al lumicino dal punto di vista economico e culturale.
E’ importante, perciò, ribadire il senso del 25 aprile, il giorno della vittoria contro chi aveva perpetrato 400 stragi, dall’8 settembre del ’43 all’aprile del ’45, provocando la morte di 15.000 persone: Castellaneta, Caiazzo, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto, Fosse Ardeatine, Castelletto Ticino, Benedicta, campo di Fossoli… e tante, tante altre uccisioni di persone spesso inermi, donne, vecchi e bambini…
Di alcune di esse c’era una conoscenza diffusa, di molte altre c’è stata la volontà di raccogliere e conservare la memoria da parte dei sopravvissuti o di testimoni diretti e/o indiretti.
Quando, nel 1960, il procuratore generale militare, Enrico Santacroce, seppellì 695 fascicoli riguardanti quelle stragi, si pensò che fosse tramontata la possibilità di dare giustizia alle vittime.
Ma nel ’94, quando il giudice Antonino Intelisano, cercando documenti per il processo contro Priebke per le Fosse Ardeatine, ordinò di rovistare in tutti i luoghi di Palazzo Cesi, sede degli uffici giudiziari militari, i fascicoli riemersero in uno sgabuzzino e poterono riprendere i processi contro tanti accusati, specie quelli ancora vivi.
Il 25 aprile è anche, però, il giorno della vittoria della libertà contro un regime poliziesco, della democrazia contro la dittatura, della partecipazione contro l’esclusione, della solidarietà, dell’uguaglianza e della dignità della persona e del/la cittadino/a contro la discrezionalità caritativa.
Questi valori sono ancora, per noi, imprenscindibili da una vita dignitosa, oltre che moderna?
Pensare che tutto ciò sia lontano da noi, che non ci tocchi più, significa fare un grave torto non solo a chi si è sacrificato per essi, ma principalmente ai giovani di oggi e di domani a cui toglieremmo la possibilità di capire ed amare il proprio paese la cui carta d’identità è data dalla Costituzione italiana.