di Rita Bosso
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La grafica di Ignazio Fresu restituisce un’isola essenziale, assoluta, severa, chiusa in un bozzolo di silenzio e di mistero. Nasce da foto desaturate, stampate su cartone e trattate con aggrappanti, realizzate con le tecniche che l’artista ha sperimentato per documentare le sue opere di scultura istallativa. L’assenza di colore non è assenza di luce; i grigi, gli ocra, i rari gialli dei metalli ossidati sono anche i colori con cui le sostanze naturali emergono dallo stracquo, quasi che il colore sia il primo attributo a staccarsi dal corpo e a depositarsi in mare, quasi che la rinascita – e l’acquisizione di nuovi colori- presupponga una stagione di bianco e nero. Troppo scontata l’associazione con i colori del lutto, ma quasi inevitabile.
Ignazio Fresu, sardo – cagliaritano, puntualizza, e Cagliari è città di mare, più simile a Napoli o a Genova che a Nuoro o a Sassari –ha praticato lo stracquo non nella sua terra natìa ma lungo le rive dell’Arno, negli anni in cui frequentava l’accademia a Firenze; con le tavole recuperate, adeguatamente trattate e ricoperte di fondo oro, realizzava madonne trecentesche che avevano una buona collocazione sul mercato.
Fresu utilizza materiali di recupero in quanto icone dell’area geografica, sociale e temporale a cui appartiene, carichi di significati; non attribuisce al recupero valenza di riciclaggio, che suonerebbe come giustificazione, atto auto-assolutorio da parte di una civiltà consumista. Bisogna fare un salto temporale di millenni, per trovare le radici della poetica di Ignazio Fresu; bisogna ricollegarsi ai filosofi pre-socratici, ad Eraclito in particolare, per ritrovare un’idea di bellezza insita nella fragilità, nella deperibilità, nella precarietà, nel Divenire che è manifestazione del Logos. Le cose che non vediamo più non sono svanite nel nulla; sono solo scomparse dal nostro orizzonte degli eventi.
“Esiste una bellezza che si manifesta sia negli equilibri precari, sia nell’apparenza delle cose – spiega Ignazio Fresu; -è una bellezza interiore, non nichilistica, è l’anima delle cose che si svela al di là del loro apparire. Di quell’apparire che, nel pensiero Occidentale, attraverso la fede nel divenire, è nascondimento del volto autentico di ciò che è, nell’indiscussa convinzione che il divenire sia un uscire dal nulla e un ritornarvi. La bellezza che esiste nelle cose è ciò che permane come sostrato del divenire, non solo come manifestazione di ciò che è mutato, ma nell’atto stesso del mutare. E se pur incapace di riconoscere un principio e una fine per ogni cosa, appartengo a questo moto dove ogni cosa si mostra soggetta al tempo e alla trasformazione, così che il Divenire s’impone come la sostanza stessa dell’Essere e nel mio agire artistico diventa forma”.
Le installazioni di Fresu raccontano un divenire collettivo e, forse, questa è una delle ragioni della loro monumentalità, dell’esigenza di collocazione in spazi ampi e particolari. Spazi che accolgono l’osservatore-fruitore e gli impongono un ruolo attivo, non meramente osservativo; gli chiedono, come fa qualunque espressione artistica, di entrare pienamente nel processo creativo e di ri-creare.