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Per la prima parte dell’articolo, leggi qui
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“The invention of tradition” è un testo (1983; Cambridge University Press) del famoso storico Eric Hobsbawn.
Il teorema di fondo è che in molte culture e sottoculture le tradizioni storiche vengono spesso sostituite da altre, moderne, che però attraverso una sorta di passaggio di testimone indolore tendono a sostituire la tradizione vecchia senza traumi. Anzi, utilizzando gli stessi strumenti, o la stessa intensità, le nuove tradizioni “appaiono” perfettamente integrate nel territorio, come fossero esistenti da sempre: di fatto è l’unico modo per dare loro legittimità sociale. Tradizioni “inventate”, appunto.
C’è però una condizione necessaria affinché ciò avvenga: le tradizioni inventate riescono ad attecchire in realtà fragili, ed in momenti di crisi, di profondi e veloci mutamenti. Ovviamente le nuove tradizioni devono essere in continuità con le vecchie proprio per non perdere orientamento sociale, per “rinforzare” e connotare la comunità stessa.
Per definizione quello delle tradizioni ‘inventate è uno “strumento” utilizzato spesso politicamente dal potere dominante (politico o sociale poco importa) per far accettare un nuovo corso, una nuova colonizzazione, ma ci sono svariati esempi in cui inventare una tradizione aiuta la comunità in difficoltà.
Si pensi ad esempio all’uso dei disegni simbolici che diversi popoli nativi usano ricamare (ad esempio gli huipil dei discendenti Maya) per conservare memoria delle propria storia in contrasto con l’assimilazione dei costumi – ‘indotta’ – dei conquistatori. O dalla parte opposta del mondo, la tessitura dei tappeti kilim della tradizione orientale (leggi qui).
Huipil
Kilim
In determinati casi è insomma una forma di adattamento sociale che una comunità fragile attua per poter sopravvivere, in qualche modo, senza rinunciare
(almeno apparentemente) a se stessa, ad una propria – presunta – identità.
Cito un esempio, credo illuminante.
Orgosolo, in Sardegna, è famosa per i suoi murales. Giustamente. Ce ne sono oltre 150, splendidi, che abbelliscono le facciate del centro storico.
Talmente belli ed originali, che sono diventati attrazione turistica, oltre che tradizione consolidata.
Tradizione? In realtà i primi murales ad Orgosolo sono stati fatti da un artista toscano, residente ad Orgosolo, nel 1975. Inizialmente erano soggetti della Resistenza, a ricordo delle azioni partigiane contro il fascismo, contro la guerra in Spagna, ecc. A questi si sono affiancati altri soggetti di denuncia sociale più legata al territorio: la disoccupazione, l’emancipazione femminile, le condizioni carcerarie, fino a rappresentare scene di vita quotidiana, come la pastorizia.
Dall’artista senese si è passati ad artisti locali, ad alunni. Ci sono stati persino turisti stranieri che hanno ringraziato con propri murales gli orgolesi per la loro ospitalità: chiunque ad Orgosolo può lasciare le proprie emozioni espresse sotto forma pittorica, facendo “parlare” i muri!
Ecco una tradizione inventata, che ha meno di quarant’anni, ma non si vede.
Possiamo riconoscere Ponza in queste analisi, da Antonioni ad Hobsbawn? Direi proprio di sì.
Con un impatto però fortemente negativo: a Ponza vecchie e nuove tradizioni non sono armonizzate, ed il risultato è quel deserto che viviamo quotidianamente. Non abbiamo attuato alcuna salvaguardia delle tradizioni storiche né attraverso la trasmissione orale, né tanto meno attraverso quella figurativa. Né, finora, abbiamo valorizzato a nostro vantaggio alcune peculiarità territoriali come, ad esempio, quella che Mimma Califano ha evidenziato a proposito del “maso chiuso” (leggi qui).
E non abbiamo ancora, infine, “costruito” nuove tradizioni che valorizzassero un nostro carattere, come nel caso di Orgosolo.
Dovremmo vivere di turismo, ma non abbiamo sviluppato i tre cardini su cui si fonda una moderna industria turistica, al di là delle bellezze del paesaggio: offerta gastronomica, artigianato, valorizzazione della cultura locale.
Alla tradizione si è sostituito solo il “senso” dell’invenzione della tradizione: il senso cioè, dell’inadeguatezza della comunità tradizionale, ma senza veri contenuti alternativi, o da raccordare ad essa.
Almeno fino ad oggi.
[Ponza, ‘L’avventura’ di Antonioni e l’invenzione della tradizione (2) – Fine]