proposto da Gabriella Nardacci
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“Rifiuto le mode tendenti a interpretare una poesia considerandola un testo. Nessuna poesia può rimanere su una scrivania o su uno schermo di Internet… L’universo, lo spazio, l’immensità del tempo, sono il palcoscenico più consono…”.
(Ko Un)
L’isola che canta
Sparse,
nel mare delle mie origini,
chissà perché,
isole qui e là.
Piccola, tra loro, s’intravede l’isola che canta.
Quando il vento, forte, soffia nelle lontane acque dell’ovest,
attorno a quell’isola, sempre, si ode cantare.
Puntuali, da tempi antichi,
arrivano le anime dei pescatori morti nel vasto mare.
Arrivano col gran vento
e cantano
per giorni e notti, cantano.
Così, anch’io, cresciuto
guardando quell’isola
ho accolto in me il grande spirito
e ancor oggi sono un cantore viandante.
Ho avuto, a volte, momenti solenni, ma oggi non son’altro
che un triste
malinconico cantore viandante.
[Da “Antologia Poetica” di Ko Un]
Ko Un è un poeta sudcoreano; è nato nel 1933. La sua vita è costellata di eventi dolorosi ma anche di momenti intensi in cui appare protagonista attivo e stimato sia in ambito letterario che sociale.
In seguito allo scoppio della guerra in Crimea, sconvolto dal dolore nel vedere odio e distruzione, tenta il suicidio ma si salva e nel 1952 diventa monaco buddista e responsabile del Quotidiano Buddista.
Comincia a pubblicare saggi e poesie ma nel 1962, deluso dalla corruzione che vede intorno a sé, sveste la tonaca e ritorna alla vita laica.
Nel 1966 legge “Il placido Don” di Solochov e la grandezza dell’opera lo mette in crisi. Brucia i suoi manoscritti e si rifugia nell’alcool. Tenta di nuovo il suicidio ma si salva ancora.
Nel 1970 avviene, nell’animo del poeta, un rinnovato entusiasmo e diventa un militante nazionalista coinvolto nel movimento dei diritti umani e dei lavoratori. Nel 1978 diventa segretario generale dell’Associazione degli Scrittori per la Libertà.
Nel 1974 riceve il Korean Literature Prize e nel 1978 è eletto vice presidente dell’Associazione Coreana per i Diritti Umani.
Nel 1980 la corte marziale lo condanna all’ergastolo ma nel 1982 è liberato in seguito a un’amnestia generale.
Nel 1983 si sposa e si trasferisce nei pressi di Seoul, dove vive tuttora. Scrive un’opera poetica monumentale, Maninbo, un’opera epica in sette volumi, venti volumi di Opere Complete e cinque volumi della sua Autobiografia e diversi libri di poesie.
Ha avuto due candidature al Premio Nobel e ne è stato finalista nel 2005.
Nel 2008 festeggia i cinquanta anni di attività letteraria con la pubblicazione del suo ultimo volume di poesie “Spazio vuoto” e con l’allestimento di una mostra dei suoi quadri che lo vedono eccellere anche come pittore.
Le sue opere sono state tradotte in altre quindici lingue.
Il poeta Ko Un a Milano nel giugno 2013
.
Il poeta
Fu a lungo un poeta.
Persino i bambini
e le donne
lo chiamavano “Poeta”.
Più di chiunque altro
lui fu un Poeta.
Persino i maiali, i cinghiali,
grugnendo lo chiamavano “Poeta”.
Partì per andare lontano, morì sulla via del ritorno.
Non un verso rimase nella sua capanna di paglia.
Fu forse un poeta che non scriveva poesie?
Un altro poeta
compose in sua vece una poesia.
Non appena scritta,
fiuuu, volò via con una folata di vento.
Fu così che poesie di ogni spazio e tempo, scritte in migliaia di anni, seguendole
volarono via una per volta, fiuuu, con una folata di vento.
La poesia non c’è.
Michele Rispoli
30 Novembre 2013 at 10:29
Redazione buongiorno
Mi dispiace, penso più alla pancia che alla poesia.
Che peccato!
silverio lamonica1
30 Novembre 2013 at 13:01
Caro Michele, anche una buona “trippa di ricciole” come l’hai presentata tu nel ricco ricettario di Silverio Mazzella, può ispirare una poesia; certo, sono “versi” di tutt’altro genere rispetto a quelli – bellissimi – del coreano Ko Un, ma sempre versi sono.
Gennaro Di Fazio
30 Novembre 2013 at 13:05
Preferisco la poesia alla pancia, mi dà molte più emozioni. In fin dei conti nel corso della nostra esistenza noi andiamo sempre alla ricerca delle emozioni, a volte sane a volte purtroppo anche pericolose. Anche la pancia dà emozioni, ma a me molto meno di tante altre esperienze. Essa serve sicuramente a sopravvivere, così come in alcuni momenti di estrema carestia è più importante della poesia, ma non credo che oggi ci troviamo in tali condizioni. Immaginate se noi vivessimo solo in funzione della pancia! A conclusione di questo mio piccolo commento, colgo l’occasione per ringraziare la Nardacci per tutte le sue belle produzioni che esprime su questo sito e le conseguenti emozioni che mi genera.
P.S.
Anche “Le storielle ponzesi in pillole” mi danno emozioni, pertanto ringrazio Michele per queste sue pubblicazioni
Gennaro Di Fazio
Michela Petruccioli
30 Novembre 2013 at 14:20
Cibo e parole hanno entrambe a che fare con la bocca; è regola del nostro vivere civile che non si parla mentre si mangia. Cio’ dimostra che si tratta all’apparenza di due cose che si negano a vicenda; ma spesso il cibo sa diventare poesia e la poesia dal canto suo nutre la nostra anima. Tutti possiamo mangiare, mangiare ciò che vogliamo ma “sono in pochi in grado di capire che cosa abbia sapore” (cit. Confucio).
Michela Petruccioli
Michele Rispoli & La Redazione
30 Novembre 2013 at 20:12
Ci (ri)scrive Michele Rispoli:
Chiedo scusa, ma non era mia intenzione commentare l’Isola che canta.
Insieme al mio messaggio vi era un allegato, che rimando: un pezzo dal titolo “Che peccato”, rivolto, ancora una volta, alla vita sociale e politica di Ponza.
Le mie parole erano in tema con i miei abituali interventi sulla vita quotidiana ponzese e non dirette ai gradi poeti, che forse non sono in grado di capire.
La Redazione chiede scusa a Michele e ai Lettori tutti per il disguido che si è verificato…
…Ma ne abbiamo lette delle belle, no?
Gabriella Nardacci
1 Dicembre 2013 at 08:02
Ringrazio tutti per i commenti sul pezzo “L’Isola che canta”.
Grazie a Gennaro per i complimenti ma a tutti vanno anche i miei per i loro pezzi sempre da me apprezzati.
Un discorso a parte meriterebbe la ‘Poesia’ ma nella citazione da Confucio, proposta da Michela Petruccioli, c’è tutta la risposta.
A tal proposito aggiungo una piccola poesia di Efrain Barquero che dedico a Michele Rispoli che tanto oggi mi ha fatto “scervellare” per trovare un’attinenza tra il suo commento e il pezzo sulla poesia (ho capito poi che non c’era, dopo la precisazione della Redazione):
Mia nonna era il ramo incurvato dalle nascite.
Era il volto della casa seduta in cucina.
Era l’odore del pane e della mela conservata.
Era la mano del rosmarino e la voce della preghiera.
Era la povertà dei lunghi inverni
avvolta nello zucchero come un’umile ghiottoneria.
Cucina e poesia possono coesistere e anche gli odori dei cibi ci riportano la memoria di persone e luoghi vissuti. La poesia, così come la narrativa, sono fonti storiche importanti. Importante è non farci mangiare dal cibo, come dice Carlo Petrini in Terra Madre. Ma questo è un altro discorso…
Grazie di nuovo. Cordialmente,
Gabriella Nardacci