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Ci invia, Teresa Denurra dalla Sardegna, uno scritto legato alle tradizioni dei primi giorni di novembre, profondamente radicate nella cultura sarda, che rimandano ad altre usanze, altri riti, altre zone geografiche. Ad altro: a tutto quel che ci vogliamo trovare…
la Redazione
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Tra la fine di ottobre e gli inizi di novembre le giornate diventano più corte e le notti più lunghe; questa è, molto probabilmente, una delle ragioni per cui, in questo periodo dell’anno, si rinnova il culto dei morti.
Per la festa di Ognissanti e per la commemorazione dei defunti si celebrano nell’Isola di Sardegna antichi riti, denominati, a seconda della zona geografica, “Su mortu mortu”, “Is Animeddas”, “Su Prugadoriu” o “Is Panixeddas (piccole offerte)”; tutti prendono spunto dalle credenze relative alle anime dei morti.
In Sardegna, le zucche che si trasformano in teschi illuminati, esistono da tempi lontanissimi (anche nelle Domus de Janas si trovano testimonianze in tal senso): con il nome sa conca ‘e mortu (la testa del morto) vengono usate il 2 novembre.
Irgoli (Golfo di Orosei): Domus de Janas di Sa Conca ‘e Mortu
Bambini e ragazzi percorrono strade e vicoli dei paesi della Sardegna, i volti anneriti col carbone, chiedendo dolci e frutta secca e recitando litanie come “Seus benius po is animeddas, mi das fait po praxeri is animeddas?” (Siamo venuti per le anime, ci date qualcosa per loro, per piacere?) o “Seu su mortu mortu”.
Si chiedono e ricevono piccoli regali, noci, mele cotogne, melagrane, dolci o offerte, per le anime dei defunti; tra l’altro l’inglese/americano “Trick or treat” (benevolmente tradotto come dolcetto o scherzetto) in realtà significa anche “sacrificio o maledizione”…
Tra i dolci tipici di questo periodo ricordiamo i papassini, dolci ottenuti da un impasto di farina, strutto, noci, mandorle, uva passa, aromi d’arancio e anice; ammoniaca per la lievitazione e una candida glassa di zucchero dopo la cottura al forno.
Papassini
Pan’e sapa
Ossa di morto
La sapa è il liquido ottenuto dalla bollitura di mosto di uva […è una preparazione anche ponzese: ”u vvin’ cuòtt’, per cui il mosto con la bollitura si concentra a 1/5 del suo volume iniziale – NdR].
Altri dolcetti caratteristici sono gli ‘ossi di morto’ (ossus de mortu) fatti con mandorle macinate, zucchero e albumi d’uovo, aromatizzati alla cannella (ma esistono varie preparazioni a seconda delle zone della Sardegna e la denominazione è presente anche in altre regioni italiane).
Qualcuno testimonia che soprattutto in passato, la gente, appena sentiva bussare alla porta i ragazzi che chiedevano “poi is animeddas” (per le anime dei morti), ne approfittava per rifilare un po’ di tutto, pur di disfarsi di qualcosa che in casa non serviva più.
Ma l’usanza più singolare e suggestiva è legata alla leggenda secondo cui, nella notte tra il primo e il due di novembre, le anime dei defunti circolano liberamente fra i vivi e da questi sono ricordate con diversi riti.
La notte, nelle case in cui la tradizione si rinnova, si accendono piccole lanterne (lantias) o candele e si lasciano le tavole apparecchiate in modo che le anime possano sentirsi a casa. Sulla tavola viene stesa una tovaglia bianca e si prepara della pasta, condita generalmente “in bianco”; si mette l’acqua e tutto ciò che può avere una corrispondenza con le abitudini in vita delle anime che si vogliono ricordare.
Ma niente posate; soprattutto sono banditi coltelli e forchette, strumenti pericolosi in mano a qualche anima poco conciliante col mondo dei vivi.
“Altra rigida precauzione era quella di non chiudere a chiave né porte, né cassapanche, né cassetti: questo al fine di dare la possibilità alle anime di prendere qualcosa che avevano desiderato. Non mancava la brocca dell’acqua, piena fino all’orlo: i morti tornavano a casa con una grande sete. Al centro del tavolo un lume ad olio acceso per illuminare la stanza con la cena preparata.
Se l’indomani la tavola apparecchiata rimaneva intatta, era segno che le anime si erano nutrite e la cena non consumata veniva offerta ai poveri, in suffragio dell’anima per cui era stata preparata.
Era doveroso eseguire il rito, non tanto per il vincolo, ma perché le anime potevano nuocere ai viventi se, tornando una volta all’anno, non trovavano il rituale pasto”(1).
Intensamente evocativo il racconto di questa notte nel capitolo undicesimo del libro “Accabadora” di Michela Murgia. (2)
“Le anime ci conoscono, sono dei nostri parenti, e quindi non ci faranno del male, perché gli abbiamo cucinato anche la cena. Andrìa Bastìu a questo pensava, mentre si preparava alla notte del primo di novembre nella sua stanza. Si tolse le scarpe che usava in campagna, ma rimase vestito, che di dormire non aveva nessuna intenzione. L’anno precedente la madre lo aveva fatto stancare apposta tutto il giorno a raccogliere patate, e a sera si era addormentato senza volerlo, tradito dal corpo. Ma stavolta non l’avevano fregato, era sveglio e avrebbe visto le anime mangiare e prendere il tabacco trinciato lasciato sulla tavola, dove la mattina si trovavano impressi i segni delle dita. Così avrebbe saputo cosa rispondere a Maria, quando diceva che le anime non andavano in giro a tormentare nessuno, che la misericordia di Nostro Signore Gesù Cristo non lo permetteva. Se Nostro Signore Gesù Cristo aveva permesso che suo fratello perdesse una gamba, figurarsi se non permetteva ai morti di mangiarsi due culurgiones…(3)”.
Culurgiones
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In conclusione la Sardegna è terra ancora intrisa di leggende e tradizioni come questa che vi ho descritto, tradizioni che, nonostante il tempo passi, continuano ad essere fortemente presenti, anche tra gli scettici.
E la vostra Isola di Ponza?
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(1) – “La Marmilla attraverso le sue storie e le sue leggende” di Albertina Piras e Antonio Sanna (2006); Ed. Aipsa (Collana ‘Quaderni di storia e cultura locale’)
(2) – “Accabadora” di Michela Murgia –Einaudi Editore; 2009 – Premio Campiello 2010. In copertina, immagine di Carlo Bevilacqua: ‘Fede’; 1955
(3) – Culurgiones. Il tipico culurgiones di Sadali (CA) è una specie di raviolo con un cuore di patate, menta, aglio e formaggio pecorino fresco, ma il ripieno varia molto a seconda della zona della Sardegna. Nel paese di Ulassai (provincia dell’Ogliastra – OG), sino agli anni Sessanta, la tradizione voleva che i culurgiones venissero consumati solo ed esclusivamente il giorno dei morti, “sa di e ir mortos”, il 2 novembre.