di Giuseppe Mazzella
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È con questi soprannomi che sono conosciuti Anna Cristo e Silverio Verbini. Oggi, una coppia affiatata, con due figli e nipoti, dopo una vita difficile piena di sacrifici, ma anche di soddisfazioni. Hanno superato da poco i settant’anni e si godono un sereno riposo nella loro casa della Piana a Le Forna.
– Anna, tu dove sei nata? – le domando.
– Sono nata ad Ajaccio nel 1942. Ho avuto una infanzia difficile. La mia famiglia era povera, mia madre era sempre in ospedale e mio padre stentava a guadagnare come pescatore.
Un mattino ero al porto e, forse, a causa di un capogiro da denutrizione, caddi in acqua. Fui salvata per miracolo e portata a casa.
La cosa arrivò all’orecchio all’assistente sociale e fui affidata per un anno assieme a mia sorella Maria Grazia ad un orfanotrofio tenuto da suore.
Fu un anno terribile, sottoposta anche ad angherie.
Là mi capitò anche un fatto di cui non ho mai saputo darmi una spiegazione. Ogni notte sentivo una presenza estranea che mi toccava i piedi.
Me ne lamentai con le suore che una sera decisero di controllare per tutta la notte, dandosi il turno, per verificare se dicevo la verità o era solo la mia fantasia.
Quella notte dormii come un sasso e la mattina le suore mi svegliarono infuriate, strappandomi le coperte da dosso, ma ci accorgemmo esterrefatte che sulle mie ginocchia c’era come uno strato bianco filamentoso con il segno di tre dita che le segnavano profondamente. Segni che ancora porto.
Creduta indemoniata, fui allora portata di peso in chiesa per un rito di esorcismo. Avevo solo cinque anni e ricordo tutto con terrore.
– E poi che cosa è successo?
– Perdurando la malattia di mia mamma, che non era in grado di accudirmi, fui affidata ad una famiglia ricca di Pastricciola, che aveva già cinque figli, i signori Carli, Domenique e signora Rosa Graziella.
Rimasi in quella famiglia ben 12 anni e mi ci affezionai moltissimo, tanto da suscitare la gelosia di mio padre.
E non solo. A scuola ero invidiata per la fortuna che avevo avuto di vivere in quella famiglia abbiente e la maestra ogni giorno mi tormentava domandandomi cosa avessi mangiato il giorno prima.
Raccontai la cosa a quelli che chiamavo ormai mamma e papà e loro mi suggerirono la risposta che io puntualmente ripetei a scuola alla solita richiesta: “Ho mangiato pane e pernice, affari di casa non si dice!”.
– E poi cosa successe? – chiedo ancora.
– Successe che mio padre volle allontanarmi da quella famiglia e con la scusa di farmi conoscere i nonni, mi portò a Ponza. Avevo sedici anni e parlavo solo francese e il dialetto corso. Quando arrivai a Le Forna – era il 1958 – arrivai di notte e andai giù ‘al Cavone’ alla Piana, dove vivevano i miei nonni. Appena arrivai con l’autobus un gruppo di giovani che si trovavano lì, esclamarono: – ‘A faccie d’i patane, so’ arrivate i francese!
Non capii nulla, ma riportai la frase con precisione ai nonni divertiti alla mia ingenua domanda. I giorni passavano, e in me la nostalgia della famiglia Carli aumentava, ma mio padre, ripartendo per la Corsica mi lasciò a Ponza con i nonni”.
– E qui entra in scena Silverio Verbini, ‘u cursuchese’ – suggerisco.
– Sì, lo conobbi, anche perché ci univa anche un filo di parentela e io frequentavo la casa di quello che poi sarà il mio futuro suocero.
Anche qui suscitai la gelosia delle cognate, perché lui si era molto affezionato a me e io gli leggevo il giornale e gli insegnai anche a firmare.
– Ci sposammo nel 1965 – precisa Silverio”.
Come è stata la tua infanzia, invece? – lo interrompo.
– Come è stata…: dura, durissima, a 14 anni ero già in Sardegna a pesca di aragoste e di corallo con la barca di Francesco Calisi, fratello del più noto “taliano”.
Dalla Sardegna seguii poi mio fratello detto “Jepson” all’isola d’Elba e per quattro cinque anni ho governato diversi yacht. Il mio soprannome deriva dal fatto che mio padre, anche se per pochissimo tempo, ha lavorato anche lui in Corsica, mentre Anna che di fatto è della Corsica è detta ‘a francese.
Misteri dei soprannomi – preciso e aggiungo: – la Corsica quindi crocevia del vostro destino di coppia.
– Sì. E dopo una deludente esperienza con alcuni capobarca che mi sfruttavano solo, decisi di mettermi in proprio e finalmente ebbi prima una barca di circa dieci metri e poi una di 22, la ‘Astor’, con la quale finalmente potei impegnarmi al meglio nel mestiere di pescatore”.
– Ti ricordi di episodi particolarmente felici? – chiedo.
– Sì, alcune pescate veramente favolose come quella dell’11 novembre 1976 in cui pescammo 130 quintali di orate e 50 quintali di acciughe. In un’altra occasione prendemmo ben 570 casse di acciughe.
Una volta pescammo anche un pesce lungo dieci metri, che noi chiamiamo “Mangialice” che dovemmo assicurare alla barca con alcune corde, impossibilitati a tirarlo a bordo. Ci capitavano episodi anche negativi, come quella volta che fuori Zannone fummo sorpresi da un improvviso acquazzone e dovemmo ripararci sotto le cassette vuote, perché gli acini di grandine erano grossi come noci. Poi il diabete mi ha impedito di continuare questo lavoro, che amavo, ma il richiamo del mare per me resta irresistibile. Benché malandato, ancora oggi ho un piccolo gozzo con cui, tempo permettendo, mi diletto.
In sintesi una vita difficile, operosa, ma con belle soddisfazioni.
– Debbo ringraziare Anna che ha saputo economizzare e condurre la famiglia specie quando ero lontano.
Anna sorride e con lo sguardo mi fa capire che è l’ora del Rosario di Lourdes che lei segue ogni sera in diretta tv, in suffragio di qualche persona scomparsa a cui lei era molto legata.
E questo nonostante la pessima esperienza della sua infanzia con le monache di Ajaccio.
Panorama di Le Forna dalla casa di Anna e Silverio