di Sandro Russo
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Abbiamo, nel nostro viaggio, frequentato cartografi e geografie estreme, spostando progressivamente il limite della nostra indagine.
Forse anche allontanandoci, per certi versi, dal tema iniziale.
Ma come accade nei viaggi veri, anche questo si è fatto da solo, lungo la strada, ed una volta di più si deve condividere, parola per parola, questa opinione di Gianni Celati [espressa nell’introduzione a “Bartleby lo scrivano” di Herman Melville (Ed. Feltrinelli; 2000)]:
“La condizione d’esercizio della scrittura dipende senza dubbio da un andamento inerziale delle parole, che portano e portano dove vogliono loro, mai dove vogliamo noi. Portano là dove sono chiamate dalle voci che parlano all’anima, le quali sorgono da chissà dove, comunque sempre da molto lontano…”
Perciò, sull’onda di questa inerzia, abbandoniamo le cartografie convenzionali per mondi di cui non sono ancora tracciate rotte, né disegnate mappe…
Ai confini del sistema solare si è spinta la fantasia di Stanley Kubrick in 2001 Odissea nello spazio ((2001: A Space Odyssey – 1968).
Il mondo proposto da Kubrick nella parte finale del suo film è rarefatto, lontanissimo nel tempo e nello spazio, ed è segnato, nelle ultime inquadrature, da una presenza inquietante: un feto umano dai grandi occhi sbarrati
Lo sguardo del bambino astrale (Star Child) nella sequenza finale del film (al tempo 2h.14’) è quello che sigla il finale aperto del film. È uno sguardo rivolto allo spettatore, ovvero un invito esplicito a rispondere alla domanda su qual’è il senso del viaggio, ma soprattutto è uno ‘sguardo in macchina’ esortativo: Star Child ci chiede di guardare il mondo (e il cinema) con occhi diversi. Da adulti, ma recuperando l’innocenza dei bambini (cliccare sull’immagine per ingrandire).
Nel capolavoro di Kubrick la circolarità del tempo è sottolineata da diverse immagini:
– il simbolo della ruota che ritorna nella sequenza finale, dopo essere stato enunciato all’inizio;
– il feto (Star Child) ha un movimento circolare, che poi è lo stesso a cui rimanda più volte il valzer di Johann Strauss jr.: “Sul bel Danubio blu” (“An der schönen, blauen Donau”) dell’inizio, quando l’astronave si avvicina alla ruota;
– il feto è anche, di per sé il simbolo di questa circolarità, quella del ciclo biologico, dell’eterna rinascita della vita;
– infine riflettiamo anche sullo sguardo – di per sé altra immagine ‘simbolo’ della circolarità (la pupilla è tonda) – e sull’invito di tutto il cinema di Kubrick, in particolare di “2001”, a guardare con nuova consapevolezza le immagini che scorrono sullo schermo.
[da appunti e conversazioni personali con Gianni Sarro, maestro di critica cinematografica]
Il tema principale di Richard Strauss, “Così parlò Zarathustra”, sottolinea i punti di svolta della storia, come il momento in cui lo scimmione (Moonwatcher, “colui che guarda la luna”) inizia a mettere a frutto gli insegnamenti del ‘Monolite’, impugnando un osso e comprendendo di avere tra le mani un’arma per procurarsi da mangiare e per sopraffare i nemici; oppure quando l’astronauta David Bowman, sempre per mezzo del ‘Monolite’, si trasfigura in un essere nuovo, il Bambino delle Stelle, appunto.
La scelta di questo brano forse non è casuale – come nulla in Kubrick – , in quanto il poema sinfonico di Richard Strauss del 1896 (attenzione, non è Johann Strauss jr.! di “Sul bel Danubio blu”!) è ispirato all’omonima opera di Friedrich Nietzsche (del 1885), nella quale si narra la discesa del profeta Zarathustra tra gli uomini per insegnare loro ad essere liberi dai propri limiti (il concetto nietzschiano dell’oltre-uomo – dal tedesco: Übermensch). È quindi probabile che Stanley Kubrick e Arthur Clarke (co-sceneggiatori del film ), abbiano voluto evocare un’analogia tra Zarathustra e il monolito, e tra l’Oltre-uomo e il Bambino delle Stelle.
L’interpretazione più filologica sembra quindi quella del continuo divenire, di un ciclo vitale inalienabile e circolare, un perpetuo inizio.
Obbietta il regista Gianni Amelio “In 2001, più che da un eterno ritorno, il nostro destino sembra contrassegnato da infinite partenze, tutte temerarie, ma tutte, per un verso o per l’altro, obbligatorie“.
E lo stesso Kubrick così argomenta: “Non ho mai pensato di dare con questo film un messaggio traducibile in parole. “2001” è un’esperienza di tipo non verbale. Ho cercato di creare un’esperienza visuale che trascendesse le limitazioni del linguaggio e penetrasse direttamente nel subcosciente con la sua carica emotiva e filosofica“.
Ma dopo tante parole, vediamo le immagini:
La scena conclusiva del film “2001. Odissea nello spazio”
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Ragionando per associazione… la ruota delle stazione orbitale è un altro emblema del film di Kubrik; essa è costituita da due cerchi con quattro raggi ciascuno. Non è esattamente la stessa immagine – sarebbe troppo scoperto e Kubrick non frequenta le categorie dell’ovvio -, ma di otto raggi è costituito anche la più famosa immagine della simbologia buddhista.
…E non a caso sottende ad un’altra visione della vita, che di nuovo include la circolarità e il ritorno…
La ruota del Dharma a otto raggi o ‘Dharmachakra’ (in sanscrito) ha otto raggi, simbolo degli otto nobili sentieri del Cammino della Saggezza e della Disciplina mentale: 1. la Retta Comprensione, 2. il Retto Pensiero, 3. la Retta Parola, 4. la Retta Azione, 5. la Retta Condotta di Vita, 6. il Retto Sforzo, 7. la Retta Consapevolezza, 8. la Retta Concentrazione.
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[Le isole del mito. (12). – Continua]