di Emanuela Siciliani
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Si erano ritrovate davanti a quel cancello, di notte. Le strade d’intorno tutte vuote perché era molto tardi. Faticavano a separarsi traccheggiando a parlare. Accendevano una sigaretta per allontanare, col fumo espirato, quel peso che opprimeva loro lo stomaco.
Così ristavano a dirsi cose già dette, ad escogitare strategie, a tenere le braccia conserte sul cuore, come a volerlo proteggere. In quella sospensione si era alzato d’un tratto un gran vento, sbucato da chissà dove, tanto che delle buste di plastica fecero il loro ingresso nella strada e presero a volare loro intorno, seguite da incarti che sapevano di prosciutto e mortadella.
Un barattolo si affacciò rombando alla fine della strada e le raggiunse zigzagando. Atterrò sui piedi dell’una, calzati di stivali d’antilope e lì trovò, finalmente, riposo. Le due amiche avevano smesso di parlare e guardavano il vorticare dell’immondizia soffiata dai cassonetti strapieni.
Intorno a loro, due o tre mulinelli di carte avevano preso un ritmo serrato. Presto erano accerchiate, mentre sempre più avvitanti si facevano le volute concentriche.
Ad un tratto si resero conto che i mulinelli le avevano circondate e che ruotavano con sempre maggior vigore, soffiati dallo scirocco che arrivava da ogni angolo dell’aria. Una delle due guardò il cancello, che era quello di casa sua, con la speranza che si aprisse e che la facesse entrare. L’altra cercò di afferrare il manubrio del motorino, per avere una presa salda. Guardandosi senza una parola si resero conto che non ce l’avrebbero fatta e che il vento era lì per loro.
Non opposero più alcuna resistenza.
Quella col cappottino rosso fu la prima a prendere il volo. Si alzò, dapprima in maniera un po’ goffa, ascendendo come in quei quadri di Chagall verso la sommità del palazzo. Poi fu la volta di quella col giubbotto di piuma che si rotolò un paio di volte prima di assumere una posizione eretta, le gambe un po’ larghe, le mani sui fianchi.
Il vento a quel punto sembrò venir meno, proprio quando loro due avevano deciso di abbandonarsi e di farsi portare. Tutte e due furono colte dal terrore di cadere, di precipitare nel vuoto. Ma quando il loro grido – in una sintonia perfetta – stava per lacerare l’aria ecco un soffio caldo raggiungerle, ai poli opposti in cui si trovavano. Ripresero quota e si salutarono con un cenno della testa, prima che l’oscurità e la distanza glielo impedissero.
Da lì sopra potevano guardare dentro le case degli ultimi piani. Le luci ancora accese, la gente assopita davanti la tv. Un gatto che dormiva su un divano. Un bambino che si era svegliato e chiedeva attenzione. Le amiche volavano ormai leggere, con alcuni degli incarti che si erano appiccicati alle gambe come francobolli.
Una andò verso Est. Si stirò il cappotto sulle gambe e si mise seduta, le gambe accavallate. Scostò i capelli dal viso. Chiuse anche un po’ gli occhi perché cominciava ad avere sonno. Alla fine proprio si assopì, rilasciando la presa delle gambe e stendendo la schiena nel vuoto. Con le braccia sotto la testa chiuse gli occhi e sorrise.
L’altra andò verso Sud, le labbra seccate da quel vento caldo. Si slacciò il giubbotto. Spense il cellulare. Si mise di traverso, su un fianco. Appoggiò la testa nell’incavo del braccio e distese i muscoli del collo.
Tutte e due sapevano perché il vento era arrivato. Era per loro.
Tutte e due sapevano dove sarebbero andate.
La donna col giubbotto si svegliò in riva ad un lago. Era mattino presto e gli uccelli le cantavano intorno. Abituati gli occhi alla luce vide una donna giungere dal bosco vicino. Era vestita di nero. I capelli tagliati sul collo. Gli occhi castani un po’ gialli. Il sorriso sulle labbra. Sembrava tornare da una festa appena finita.
A piedi scalzi si avvicinò, passando accanto alla donna in giubbotto senza dare segno di vederla. La donna rimase seduta a guardare la donna in nero. Strano ma ne conosceva l’odore, una nota di anice, un po’ di limone, cosparso nell’aria.
La donna in nero giunse in riva al lago con i piedi scalzi e bianchissimi. Entrò piano nell’acqua dirigendosi verso il centro del lago. I capelli, nerissimi, restarono a galleggiare ancora un poco sull’acqua.
La donna in cappotto si scosse, aprì gli occhi e li abituò, piano piano, alla luce del giorno. Sollevò la testa e sentì il rumore dell’acqua. Un motore lontano. Forse una chiatta di legno. Doveva essere un cimitero, ma sì certo, guarda quante croci e le ombre come braccia scheletriche le offrivano spicchi di ombra. Si schermò gli occhi con la mano e si mise in piedi.
Gli stivali d’antilope affondavano nella terra coperta di brina. I fiori dei morti da tempo cadevano al suo passaggio. Giunta presso una lapide si fermò a leggere:
Annalisa Modotti
Fotografa
1898-1965.
Sono santa e puttana, vecchia e fanciulla.
Sono viva. Sono morta.
Sono una che respira la vita.
Si chinò in ginocchio e si mise a pregare. Cercava le parole ma la testa era vuota mentre un suono di gong si librava nell’aria ormai immobile e priva di vento.
Marc Chagall. Four tales from the arabian nights
(*) – Immagine di apertura, sempre di Marc Chagall: “Double Portrait with a Wineglass”, 1918