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Gli etologi hanno dato l’efficace nome di imprinting a quel fenomeno di impressione indelebile che si stampa nell’anima vergine degli animali appena nati. Una visione di qualcuno, breve ma intensissima, e il cucciolo è condizionato per tutta la vita. L’anima di Jack, che aveva quasi un mese, rimase impressionata non da un essere vivente, ma da un paesaggio, in cui il mare e i suoi illimitati confini avevano una parte dominante.
Così la pensava Luigi, anche se non aveva mai sentito parlare di ‘imprinting’ – ma il concetto era lo stesso.
L’immagine dell’isolotto con i due moli, collegato con l’isola da tempo immemorabile, le ombre delle barche dei pescatori di totani che salpavano di notte, gli aliscafi che si alzavano e si afflosciavano sui pattini al momento della manovra, la rocca che guardava il mare e dominava la piazza, e le bellezze lontane che s’intuivano dietro un orizzonte bluastro: tutto questo venne assorbito in qualche frazione di minuto. Quella era la sua casa e non ci fu posto per niente altro.
Quando raggiunse la robustezza che gli competeva, Jack salì per primo su una passerella gettata sul pontile da un marinaio e andò a sedersi a poppa, all’aperto tra i bagagli dei turisti. Per qualche settimana venne aiutato da un equivoco che la sua tranquilla sicurezza e intuitiva conoscenza della pianta dei battelli rendeva possibile. I marinai pensavano che fosse un cane ben educato di qualche passeggero. I passeggeri amanti dei cani credevano di accarezzare il cane del capitano e quelli non amanti dei cani lo ignoravano. Qualcuno lo prese per un ausiliare della Guardia di Finanza, anche se non andava mai ad annusare in giro, comportandosi con riservatezza.
Perché non dava mai confidenza. E all’arrivo scivolava via, forse un po’ troppo in fretta, prima che si accorgessero che non aveva padrone.
All’inizio seguiva il variegato circuito delle Eolie. L’unico paese dove non ha mai posato le sue zampone dinoccolate è Ginostra. Qui lo sbarco si svolge con il rollo – la barca che si accosta ondeggiando al battello, messosi controvento, mentre il marinaio aiuta i viaggiatori a scendere lungo una scaletta – e prendere in braccio Jack sarebbe stata una manovra impossibile. Ma si presentava con regolarità in tutti gli altri attracchi e con regolarità ripartiva.
La scoperta della sua vocazione di cane marinaio da parte delle autorità competenti era arrivata troppo tardi perché le medesime autorità fossero in grado di prendere dei provvedimenti cosiddetti restrittivi, come qualcuno aveva invocato. In un raro lampo di intuizione e di buon senso, si convinsero che un cane così tranquillo, che non dava fastidio a nessuno e che si comportava meglio di molti passeggeri, poteva rappresentare una curiosità, a uso dei turisti. Non erano tutti amanti dei cani?
Raccontandomi i vagabondaggi di Jack, Luigi disse che l’aveva incontrato più di una volta in compagnia di qualche cagnetta, anche in località all’interno delle isole. E che l’area delle sue incursioni si era estesa fino a Napoli, città in cui aveva sicuramente qualche stretta conoscenza. Dunque viaggiava anche di notte, per lunghi percorsi, in una nave sgangherata, con delle cabine di prima classe allegre come le stanze di un riformatorio, dove per puro sadismo servivano panini fetenti. Ma dove si facevano scrupolo di essere severi con i cani, allontanati dai padroni – “motivi d’igiene” spiegavano i commissari – e rinchiusi in minuscoli gabbiotti inventati da un torturatore.
Come riusciva Jack a mantenere il suo status di libero clandestino?
Forse la sua disinvoltura e il suo spirito indipendente dovevano colpire tutti quelli che incontrava. Si capiva subito che era un cane fuori della norma e che aveva comportamenti non omologhi a quelli degli altri esseri della sua stirpe. Era capace di cambiare atteggiamento se giudicava che l’ambiente potesse essere potenzialmente ostile, cercando di passare inosservato e sempre guardando apaticamente nel vuoto, come se stesse interpretando la parte di un soldato leggermente traumatizzato dalla guerra. Era una delle sue figurazioni più riuscite. Ma non si spingeva mai a leccare le mani che lo carezzavano, come avrebbe fatto un qualunque suo simile. Non era il solito fedele Fido, che sta dalla tua nella prosperità e nella miseria, nella salute e nella malattia e ti leccherà sempre la mano anche quando questa è vuota.
Per quanto lungo fosse il viaggio, alla fine rientrava sempre nel suo territorio, la piazza di Marina Corta, di nuovo un campione di placida insolenza, avendo in eccesso quella che si chiama padronanza di sé. Non tollerava intrusioni da parte di qualsiasi animale ed era veloce con le zanne. Sapeva però distinguere un semplice quattro zampe – e che cos’è l’intelligenza se non un continuo distinguo? – da un quattro zampe con una potente protezione e quando scendeva dalla rocca Jim, un cagnone bolso di razza moscia, accompagnato dal padrone, l’ex sindaco di Lipari, Jack si voltava dall’altra parte. Lo lasciava passare ma non lo voleva vedere.
Un giorno scomparve, ma nessuno se ne preoccupò. Se c’era un cane che sapeva badare a se stesso, questo era Jack, fin dai tempi in cui i marinai e i pescatori gli lasciavano avanzi di pesce e pezzi di polipo anche gustosi, che lui nemmeno toccava. Quando ricomparve in piazza, era dimagrito di sei o sette chili, barcollava e gli era venuto uno sgradevole rictus, che gli faceva digrignare o mostrare i denti a intervalli regolari, senza motivo.
Fu chiamato un veterinario che solo dopo una settimana riuscì a visitarlo, perché il cane, diventato quasi scheletrico, non voleva farsi toccare. Il veterinario disse che con quel male che aveva dentro doveva essere già morto e tutti si convinsero allora che se la sarebbe cavata.
Invece Jack aveva un altro programma e un mattino di agosto, già umido e senza speranza, si tuffò in acqua da uno dei due moli – nuotava benissimo – allontanandosi per una cinquantina di metri. Poi ruotò la testa verso la piazza, come il periscopio di un sommergibile e si lasciò affondare.
Ho chiesto a Luigi se si ricordava un caso simile a questo. Mi rispose che un emigrato, molti anni prima, aveva portato dal Brasile un pappagallo per il figlio piccolo. Quando il ragazzo morì, il pappagallo, che non aveva mai volato, infilò la finestra, perdendosi nel mare e venne ritrovato sulla spiaggia delle cave di pomice con un’ala già divorata dai granchi.
Racconto tratto da: “Il cane che andava per mare”, di Stefano Malatesta (Ed. Neri Pozza 2000)
[Il cane che andava per mare (2) – Fine]
Per la prima parte di questo racconto, leggi qui