di Francesco Ferraiuolo
La proposta dello stimatissimo amico Silverio Lamonica di celebrare l’anno prossimo il 75° anniversario della chiusura della colonia dei confinati politici di Ponza mi porta a confermare, anche qui, la mia collaborazione ed ad esprimere, di seguito, un mio contributo.
Mario Cervi in un articolo apparso su “Il Giornale” del 20 settembre 2003 ha sostenuto che le dittature non sono tutte uguali, cosi come non lo sono le democrazie.
Sotto il profilo strettamente oggettivo e teoretico è così, tanto che Caterina Soffici, nell’articolo L’inchiesta delle beffe, riportato dalla stessa edizione de “Il Giornale”, in una sorta di contrappunto, volendo significare la diversità italica delle misure della restrizione confinaria fascista, cita Curzio Malaparte che, ne “Il grande imbecille”, da la seguente definizione di Mussolini: “Un uomo che non ha mai avuto il coraggio di fare il tiranno sul serio, di ammazzare i suoi nemici, di umiliarli, di offenderli. Perché è appunto in ciò che l’imbecillità e la meschinità del Nostro si sono meglio rivelate: nel non osar di colpire gli avversari a vita, ma sol di offenderli, di umiliarli meschinamente. Che è un sistema di donne, non di tiranni”.
Ciò per significare che data quella pasta d’uomo, il fascismo che ne derivò, con la sua roboante carica di esaltazione nazionalista e corporativista, non poteva che prendere la strada della spettacolarità e dello “scimmiottamento”, che sono gli ingredienti dell’operetta.
E, forse, anche questa è stata la causa di quell’incantamento che portò il fascismo per un certo periodo della sua storia ad un grande consenso, fino al momento in cui gli italiani non cominciarono a rendersi conto che “scimmiottando” le gesta espansionistiche degli imperatori romani ma, peggio, poi, le “follie” hitleriane, si stava conducendo, come puntualmente avvenne, il paese alla catastrofe bellica.
Ma volendo riflettere su questo regime dittatoriale “all’italiana”, occorre riconoscere che pur sempre di un sistema autoritario si trattava, nel quale è giocoforza che accanto all’inganno vi sia stata la violenza.
E a ben vedere questi due ingredienti erano entrambi caratteristici dello strumento di discriminazione e repressione degli avversari politici oggetto di questo lavoro: il confino politico.
Qui, i tre elementi in causa, costituiti dalla popolazione residente, dai confinati e dai carcerieri, non sfuggivano alle dinamiche da essi indotte, restandovi soggiogati a titolo diverso.
I carcerieri ingannati dall’idea fascista ma anch’essi sottoposti al meccanismo del sistema poliziesco, all’interno del quale nessuno può dirsi al sicuro;
La popolazione, specie i giovani, ingannata dalle organizzazioni fasciste e dal miraggio offerto dalla propaganda, ma sottoposta alle vessazioni indotte dall’apparato di vigilanza e repressivo confinario;
I confinati, pur non “ammaliati” dalle sirene del fascismo, sottoposti alla legge della carota e del bastone: la carota costituita dall’amenità dei luoghi, dalla “mazzetta”, dalla possibilità dell’alloggio privato, dalla possibilità di studiare e finanche di sposarsi; il bastone costituito dalle vessazioni e dalle punizioni.
Leo Valiani nel suo “Sessant’anni di avventure e battaglie” conferma di aver definito Ponza come “una villeggiatura diversa” perché è un posto molto bello, dove si ricevevano dieci lire al giorno e c’era la possibilità di discutere di politica liberamente.
Lo stesso confino non sfuggiva all’ambivalenza poiché esso era costitutivamente “violento” nella sua organizzazione di natura repressiva, ma all’esterno poteva apparire come un luogo dove coloro che si era “costretti” a confinare erano comunque trattati con umanità e bonarietà.
L’implosione del fascismo avvenuta il 25 luglio del 1943 fu il frutto di una manovra interna dei gerarchi di fronte ad una situazione generale divenuta insostenibile a seguito delle sconfitte sui vari fronti di guerra, ed in particolare per lo sbarco degli alleati in Sicilia, che si preannunciava inarrestabile.
L’antifascismo italiano in questa fase non ebbe alcuna funzione anche perché coloro che avrebbero potuto eventualmente organizzare l’insurrezione popolare erano per la maggior parte inibiti nelle varie prigioni, nelle colonie di confino o all’estero; anzi, è lecito immaginare che furono colti di sorpresa.
Ma proprio a costoro bisogna rivolgere una grande attenzione, perché una volta liberi seppero mettere in atto ciò a cui nel corso della prigionia si erano preparati e cioè organizzare, prima, la Resistenza e, poi, la ricostruzione morale, civile e materiale dell’Italia democratica.
Il valore della fedeltà e della coerenza agli ideali anche al costo del sacrificio personale, che essi ci trasmettono, resta per noi il vero, grande e sempre affascinante insegnamento. Il loro esempio dovrebbe farci profondamente riflettere, specie oggi che l’imperante individualismo con il suo lato oscuro induce l’io ad appiattire le nostre vite, impoverendole di significato e allontanandole dall’interesse per il prossimo e per la società.
A Ponza, nella dimensione della pubblica consapevolezza, la vicenda del confino è stata come rimossa.
Si è scritto su di esso; se ne parla ancora, qualche volta, in privato, laddove il ricordo è ancora vivo nei testimoni dell’epoca, ma quella triste pagina non è percepita come proprio patrimonio storico e culturale.
A mio parere, quello che venne tramandato alle generazioni ponzesi della nuova Italia repubblicana e democratica fu un segnale contraddittorio, in cui i termini in contrasto finirono per annullarsi a vicenda e lasciare un vuoto, o quanto meno, una sospensione di giudizio fino a che la bontà dell’assetto democratico non divenne evidente.
A noi bambini della prima generazione post fascista veniva raccontato, ad esempio, che, sì, il fascismo aveva tante belle organizzazioni giovanili ma, poi, bisognava sempre ubbidire alle autorità se non si volevano passare i guai o essere “purgati” con l’olio di ricino o essere imprigionati o, ancora, addirittura, finire ammazzati come il giovane dodicenne Salvatore Scotti, che venne ferito a morte da un milite fascista, sembra, usato come bersaglio mentre si trovava in campagna ad estirpare l’erba; che, sì, la colonia con il suo migliaio di persone ci aveva portato benefici economici non indifferenti ma ci toglieva una vera e duratura prospettiva di sviluppo, particolarmente, nel campo del turismo, a cui l’isola era naturalmente vocata; che, sì, il fascismo dava più sicurezza, tanto che i ladri erano spariti e le case potevano essere lasciate aperte, ma il regime delle restrizioni era talmente asfissiante da lasciar dire che i ”veri” confinati erano i ponzesi.
E i confinati, quelli reali, non si comprendeva bene se fossero buoni o cattivi, poiché nei racconti le cose si mischiavano e rimanevano indistinte.
Insomma, ciò che appariva come buono, subito disconfermato da ciò che era cattivo, creava uno stato di disorientamento e di indecisione.
Ma il vero segno indelebile rafforzato e lasciato nell’anima popolare dalla vicenda del confino era ed è costituito dall’equazione isola uguale prigione / isolamento.
La conseguenza a tale infamia, tanto pregiudizievole allo sviluppo turistico dell’isola, è stata una reazione psicologica, che ha indotto la memoria collettiva ponzese a “dimenticare” questa triste ma importante pagina di storia.
Ho molto approfondito questo argomento e ciò mi è servito per “riscoprire”, molto più da vicino, la grandezza di queste persone, i confinati, che per la loro fede democratica, sono venuti a sacrificare, giovani e meno giovani, la loro libertà nella nostra isola, ma anche per comprendere “l’enormità” della cennata “dimenticanza”.
Dovrebbe essere motivo di vanto per i ponzesi la consapevolezza di aver ospitato persone che, coerentemente con le loro idee, liberate dal confino, hanno continuato la loro opera nella Resistenza al nazi-fascismo, nella lotta partigiana nelle zone più ostiche e impervie del paese, rimettendoci in alcuni casi anche la vita.
Dovrebbe essere motivo di gratitudine la consapevolezza che costoro hanno spinto il proprio sacrificio al punto da continuare a rimanere separati dai propri affetti per assicurare la democrazia e la libertà nel nostro paese.
Dovrebbe essere motivo di orgoglio per la nostra comunità la consapevolezza di poter annoverare tante sue figlie andate in matrimonio con quegli uomini intrepidi, che con gli stessi condivisero le lotte e i sacrifici, segno che nell’isola verso i confinati politici si faceva largo un sentimento di stima, di solidarietà e di apprezzamento della loro qualità morale.
Questo non per sminuire le altre donne che, nell’ambito di ciò che all’epoca si percepiva come ordinario e normale, avevano sposato giovani dabbene e disinteressati, caduti nella menzogna fascista, dalla quale la stragrande maggioranza riuscì poi ad affrancarsi (e, comunque, il sentimento dell’amore va sempre rispettato).
Ma il segno della straordinarietà di vite che si votarono al sacrificio per amore e per la condivisione dei valori antifascisti e democratici, contro tutto e tutti, non può non essere messo in risalto.
Oggi che Ponza si è ormai liberata dall’infamante nomea di isola-prigione, al punto che nell’immaginario collettivo essa è percepita come una splendida realtà largamente conosciuta alla pari con le più importanti località turistiche italiane, credo che si siano create le condizioni ottimali per lavorare al recupero nella memoria pubblica locale di questa parte di storia dell’isola così trascurata, quanto rilevante.
Attualmente, potrebbe essere maturo il momento per eliminare quella componente psicologica, che presente nel popolo e nelle istituzioni, ha provocato, fino ad ora, inconsciamente, il già citato processo di rimozione.
Nel nuovo humus, le stesse istituzioni, le agenzie e le associazioni culturali potrebbero essere facilitate nell’opera di recupero della memoria di quel pezzo di storia e trasformare la stessa in una risorsa sia culturale che turistica.
E per esorcizzare quel segno ancestrale, non sarebbe male dedicare una sezione del museo di Ponza alla storia della colonia di confino ed affiancare, ad un percorso naturalistico e archeologico, anche un itinerario dell’area confinaria.
Si farebbe, così, un grande servizio alla comunità sia come contributo al recupero della propria identità sia come ulteriore possibilità di sviluppo culturale e turistico.
Ma sarebbe soprattutto un modo doveroso per contribuire alla corretta ed obiettiva comprensione in loco di quello che fu veramente il confino e ricordare coloro che da qui partirono per dare vita alla Resistenza, senza la quale, forse, come dice Cavaglion nel suo “La Resistenza spiegata a mia figlia”, l’Italia avrebbe comunque riconquistata la libertà, ma sarebbe stata peggiore di quella che abbiamo ereditato.
Libri citati, nel testo e in immagine (a cura della Redazione):
Curzio Malaparte: Muss. Il grande imbecille
– Ed. Luni (Collana Storia contemporanea): 1999
– Proposto nel 2010 nella collana “Biblioteca Storica. Documenti” del quotidiano “Il Giornale”, distribuita esclusivamente in edicola Due scritti poco noti di Curzio Malaparte: l’incompiuta biografia, tutt’altro che agiografica, di Mussolini, “Muss.”, e il saggio breve, ideato e steso dopo il 1943, “Il grande imbecille”.
Leo Valiani: Sessant’anni di avventure e di battaglie – Ed. Bompiani; 1983
Alberto Cavaglion: La Resistenza spiegata a mia figlia
– Ed. L’Ancora del Mediterraneo (collana Le gomene); 2008
– Ed. Beat (2012)
Silverio Tomeo
25 Maggio 2013 at 09:22
E’ davvero singolare che non vengano citati i lavori di Silverio Corvisieri, in primis: “La villeggiatura di Mussolini. Il confino da Bocchini a Berlusconi” (Baldini Castoldi Dalai, 2004); quindi le parti dedicate al confino fascista di polizia in “Zi’ Baldone (accadde a Ponza nel Novecento)” (Caramanica editore, 2003) e in “All’isola di Ponza. Regno borbonico e Italia nella storia di un’isola (1734-1984)” (IL MARE Libreria Internazionale, 1985). Oltre che i lavori biografici di Giorgio Amendola e Altiero Spinelli, ad esempio.
Il regime fascista italiano fu un totalitarismo a tutti gli effetti, Mussolini non era un dittatore da operetta; i primi oppositori a cadere furono quelli trucidati dal primo squadrismo. L’Italia ebbe la triste primogenitura dei fascismi europei negli anni venti e trenta del Novecento, nelle isole del confino vennero lasciati morire per malattie non curate molti antifascisti, oltre le innumerevoli prepotenze a confinati e isolani.
Alla biblioteca del Museo storico della Resistenza di via Tasso a Roma, ebbi tra le mani con emozione “Una vita per la libertà” di Mario Magri, uno dei martiri delle Fosse Ardeatine, che contiene le pagine del diario del suo confino ponzese. Non mi vergogno a testimoniare che fu tanta l’emozione, e quel libro andrebbe ristampato o fatto conoscere almeno in fotocopia.