di Vincenzo (Enzo) Di Fazio
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Il mare concederà ad ogni uomo nuove speranze,
come il sonno porta i sogni
(Cristoforo Colombo)
Lo incontro al bar dell’imbarco delle navi per Formia. Sorseggia una birra mentre animosamente parla con degli amici. Per farsi riconoscere, ad Antonietta che mi ha procurato l’appuntamento, dice che indossa un giaccone giallo. Non c’era bisogno di quel dettaglio, l’avrei riconosciuto tra cento persone; era proprio come me lo ero immaginato sulla base della descrizione che m’avevano fatto.
Gennaro Vitiello, meglio conosciuto come “zucculille”, è un uomo di 60 anni che non dimostra.
Non molto alto, fisico asciutto, ha un viso simpatico con due piccoli occhi dai cui lati, quando sorride, si irradiano due grappoli di piccole rughe.
Dall’abbronzatura eternamente presente sui volti dei pescatori e dalla stretta di mano vigorosa capisco che è uomo di mare.
Gli dico subito che voglio sentire il racconto del naufragio di cui è stato protagonista, assieme al figlio, qualche mesa fa – il 28 gennaio 2013 – mentre rientrava nel porto a conclusione della consueta giornata di pesca.
Ne parlarono le televisioni locali, ne accennarono i giornali. Gennaro si salvò per miracolo. Una storia che, per come è andata, merita di essere raccontata.
Gennaro si allontana dagli amici a cui, con orgoglio e con un po’ di enfasi, dice:
– “Uagliu’ m’anne intervista’, c ’a storia mia anne scrivere ’nu libbre”.
Gli sorrido con complicità mentre cerchiamo insieme un tavolino appartato attorno al quale poterci sedere.
Non c’è molta gente ma chi c’è parla ad alta voce con il tono proprio di quell’ora pomeridiana in cui ci si rilassa, dopo una giornata di lavoro, con due chiacchiere davanti ad un fresco bicchiere di birra o ad un buon caffè.
Non aspetta che gli faccia la prima domanda che mi dice: “E’ state n’u miracule, se ci simme sarvate è pecchè è statu ’nu miracule”.
Mi accorgo che ci tiene a ripeterlo per esorcizzare la paura di quei momenti e per esaltare la straordinarietà del fatto, forse non da tutti percepito nella sua tragicità.
Era il 28 gennaio e Gennaro era uscito alle due di notte con il suo gozzo di circa 9 metri per tirare le reti calate per la pesca a merluzzo nelle acque tra Ponza e Palmarola. Gli fa compagnia, come di consueto, il figlio Emanuele di 33 anni.
La giornata non è bella; nell’uscire dal porto aveva notato che il mare cominciava a gonfiarsi sulla spinta dello scirocco ma l’esperienza, la conoscenza di quelle acque che aveva cominciato a solcare fin dall’età di 15 anni, l’ascolto delle previsioni prima di partire, lo avevano messo tranquillo.
Le operazioni di recupero delle reti procedono senza grosse difficoltà; dall’altra parte dell’isola nel canale tra Ponza e Palmarola lo scirocco non si avverte mai molto anche se quella mattina man mano che fa giorno il vento si rafforza ed il cielo si incattivisce.
La pesca è stata fruttuosa. Gennaro mette a bordo oltre un quintale di merluzzi ed una quarantina di chili di totani che sistema, dividendoli secondo la pezzatura, nelle apposite cassette di polistirolo.
Ordinate le reti e pulita in fretta la barca indirizza per il ritorno la prora verso l’estrema punta delle Forna mantenendo la rotta sotto costa. Nel momento in cui doppia punta Incenso s’accorge che c’è una burriana in arrivo; Zannone quasi non si vede ed il porto sembra lontanissimo. Ma Gennaro è uomo di mare e ne ha viste tante di tempeste nel corso degli oltre 40 anni di attività di pescatore.
Si sostituisce al figlio al timone e cerca di non far soffrire la barca facendosi spingere dal mare di poppa.
Ha da poco superato Monte Schiavone quando all’altezza di Cala Inferno accade l’incredibile. Sono quasi le due del pomeriggio.
– “N’onda enorme aute chiù ‘i sette metre… m’a vede ‘i zumpa’ ’ncuolle”… ’U tiempe appene ’i chiudere ‘u purtellone d’a cabbine, ca ci truvamme caputate a ‘mmare, c’a varche mezze affunnate”.
Il volto di Gennaro perde la solarità espressa fino a poco prima, si incupisce, gli occhi si spalancano; capisco che, mentre racconta, rivive la tragedia di quei terribili momenti.
Le grandi mani si agitano quasi a mimare la furia del vento e delle onde.
– “Manche ‘u tiempe ‘i chiamma l’esse-o-esse, ca ci simme truvate a ‘mmare”.
Gli chiedo cosa ha provato in quel momento, quale il primo pensiero che gli è passato per la mente, se ha chiamato S. Silverio in aiuto.
– “No, nun aggia chiammate nisciunu sante, me so’ sule sentute ‘nu fuoche pe tutte ‘u cuorpe… eppure era ‘u vintotto ‘i gennaio e l’acque era gelate”.
– “E’ state nu miracule! … nu miracule… e chillu ffuoche erane tutte ’i sante che me so’ venute a’ aiuta’!”.
Continua il racconto e attraverso la rievocazione scorgo negli occhi di Gennaro quasi l’immagine riflessa di quel mare incattivito, schiumoso, increspato dal vento che avvolge lui ed Emanuele.
In acqua riesce ad aggrapparsi alla murata della barca e a strappare dalla cabina, aiutato da un coltello con cui ne taglia la corda, il salvagente.
Lo abbraccia spingendolo verso il figlio che, infreddolito ed impaurito non fa altro che ripetere:
– “Papà nui murimme, papà nui murimme…”
Gennaro lo striglia, lo scuote, gli dà a parlare per allontanare la paura.
Ed il figlio ancora: – “A mmare nun ce torne cchiù, si ce sarvamme tenghe quattre risparmi a’ poste, m’ i ppiglie e me mette a ffa n’ atu mestiere”.
C’è una forte corrente di mezzogiorno che fa scarrocciare la barca in direzione degli scogli del Frontone e che mette a dura prova la capacità di resistenza di Gennaro ed Emanuele.
Lo scafo, capovolgendosi, ha trascinato in mare le reti e l’ancora. Questa, srotolatasi la cima, s’inabissa fino a toccare i fondali, in quel punto, sabbiosi. Ed è una fortuna che ciò avvenga.
Quantunque colma d’acqua, la barca, grazie all’ancora, arresta la deriva e questa circostanza rincuora Gennaro e rinnova le sue forze. Quella barca è tutta la sua vita; ne ha possedute diverse nel corso degli anni. Ne ha avute tre: una di sette metri, una di otto e questa, la più bella, la più dotata, la più efficiente, di circa 9 metri.
Ha cominciato a piovere ed è quasi passata un’ora dal momento in cui quella terribile onda anomala ha preso a schiaffi la vita di Gennaro e di suo figlio.
Intanto il pesce scaraventato in mare ha richiamato un folto stormo di gabbiani che ammassandosi formano una nuvola di tale densità da comprimere quasi l’aria sulla testa dei due naufraghi; ne deriva una situazione da film di Hitchcock che lo svolazzo concitato dei gabbiani a contatto con l’acqua e il loro penetrante vociare rendono ancora più inquietante.
Non c’è spazio in quella colonna sonora per le grida d’aiuto di Gennaro ed Emanuele.
Ma è forse proprio quella gran confusione in quel pezzo di mare tra la cala del Core e la spiaggia del Frontone a dare l’allarme.
Gennaro all’improvviso avverte il rumore di un motore; d’istinto con uno scatto di reni si spinge fuori dall’acqua fino alla cintola.
– “Nun ‘u sacce chi m’a data ’a forza, aggie sentute che quaccuno m’a date n’a spinte ‘a sotte i piedi”
“Zucculille” è conosciuto da tutti a Ponza. Conoscono la sua barca e sanno più o meno l’ora del rientro.
Qualcuno, intorno alle tre- tre e mezzo, si era chiesto come mai non fosse ancora rientrato e, allarmato anche da quel frastuono di gabbiani, si era messo in mare con la barca Angelina.
Ed è questa barca che compare all’improvviso tra i cavalloni schiumosi e l’aria fumosa di scirocco davanti agli occhi di Gennaro. Sono salvi.
A terra li aspetta l’autoambulanza.
Gennaro ed Emanuele stanno bene; vorrebbero tornarsene a casa per farsi una doccia calda ma li obbligano ad andare al poliambulatorio per effettuare i controlli di rito e verificarne le condizioni.
Bene, a parte il grosso spavento – non dimentichiamolo – sono rimasti in acqua per oltre un’ora ed era il 28 di gennaio.
Chiedo a Gennaro cosa prova adesso nel parlare di questa terribile vicenda, quali sensazioni ha provato nei giorni successivi .
Mi dice di sentirsi abbastanza tranquillo, solo ogni tanto gli capita di notte di avere degli incubi, si sveglia all’improvviso dopo aver sognato di tempeste, di mari agitati e di enormi cavalloni.
Gli chiedo quando pensa di tornare a pescare.
Presto, mi risponde. Appena avranno effettuato il collaudo alla barca ritornata miracolosamente a galleggiare.
Ne ha una grande voglia, anche se non sa quale effetto gli farà trovarsi ancora in mezzo ad una tempesta.
– “P ’u sape’ m’aggia truva’ là… ie e ’u mare ’nfuriate” – mi dice.
Ci stiamo per salutare ma prima di farlo ci tiene che io veda la barca.
Sistemata e con il motore messo a punto nei cantieri Parisi di Santa Maria è attraccata alla banchina Di Fazio e attende solo il nulla-osta del collaudatore per prendere il largo e continuare a riempirsi di merluzzi.
Vi sale a bordo e sedendosi sul dritto di prua con l’indice della mano sinistra mi fa vedere come si chiama.
Quel nome, tanti anni fa, l’aveva scritto con una sola “C” per evitare che fosse associato al “mestiere più vecchio del mondo”, ma gli amici l’avevano preso in giro.
Gli avevano ricordato che era stato anche consigliere comunale e che, come tale, non poteva permettersi degli errori… “un consigliere che non sapeva scrivere non poteva rappresentarli”…
Gennaro, di fronte a quelle continue insinuazioni, non ci pensa su due volte e, deciso, raddoppia la “C”.
Da allora quel nome si è tramandato… di barca in barca.
Ci salutiamo con la stessa vigorosa stretta di mano con cui ci eravamo conosciuti e ci diamo appuntamento per la prossima storia da raccontare e da ascoltare seduti al bar del porto in compagnia di un fresco bicchiere di birra.
Sulla cartina geografica riportata si possono individuare i luoghi della vicenda (cliccare sopra l’immagine per ingrandire)
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