di Martina Carannante
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La dialettologia è una scienza attualmente sottovalutata e marginale.
Sebbene il dialetto sia alla base delle nostre origini e fondamentale per la nostra appartenenza ad un gruppo, sembra oggi che solo gli anziani lo tengano ancora in vita.
Ovviamente nel linguaggio familiare o dialogando con i pari…
Ma cosa succederebbe se anche l’ultimo anziano smettesse di parlare il dialetto? Una parte delle radici di quella terra andrebbero perse per sempre.
Quando ero piccola, a contatto con i miei nonni, qualche parola in ponzese l’avevo appresa, ma già mio fratello, di sei anni più piccolo di me non ne conosceva neanche un’espressione perché meno a contatto con i nonni. Un giorno mia mamma decise di insegnargli qualche parola:
petrusina: prezzemolo,
vasenicola: basilico,
cazzarola: pentola,
lap’s (da lapis): matita ecc…
Ogni tanto interrogava mio fratello per fargli ricordare queste semplici parole ponzesi; per tentare di non distaccarlo completamente dalla tradizione.
Nella mia classe, oltre a me e qualche compagno di Le Forna, quasi nessuno sapeva delle parole in dialetto…
Forse perché il dialetto è ritenuto una forma di espressione volgare, non autorevole, non parlabile.
Considerazioni sicuramente inesatte.
Il dialetto nasce come forma parlata e deve rimanere viva soprattutto nel dialogo.
Parlare il dialetto e scriverlo dovrebbe diventare un’arte, anzi una materia da insegnare.
Il dialetto è molto dinamico; basti pensare al microcosmo della nostra isola, dove il dialetto fornese è diverso da quello del porto; al porto con il termine sparatrappule si indica il cerotto a le Forna troviamo ciroto. Poi ho saputo che il primo è un termine derivato dallo spagnolo: esparadrapo. Chissà per quali vie lo spagnolo è passato nel dialetto ischitano (i ponzesi del ‘Porto’ hanno origine ischitane), ma non in quello di Torre del Greco (da cui proviene il ceppo originario che nel 1742 colonizzò Le Forna) sebbene entrambi siano di derivazione dal ‘napoletano’; stessa cosa vale per la nuora ’a nore mentre a le Forna è ’a nocra…
E tutti sono dialetti del sud, con caratteristiche comuni, ma con alcune differenze anche di rilievo; infatti riconosciamo ‘a orecchio’ le differenze tra il dialetto napoletano, quello calabrese e il siciliano.
Per capire meglio questo concetto bisogna scendere più nello specifico; ci avvarremo a questo scopo di un testo base, che ho conosciuto e affrontato recentemente per il mio corso di studi: Introduzione alla dialettologia Italiana. Di G. Grassi; A. A. Sombrero; T. Telmon – Laterza 2003 – V ediz. 2010).
Le popolazione dell’Italia, intorno al 500 a. C. (dall’opera sopra citata) – Cliccare sull’immagine per ingrandirla
Già nell’antica Roma il latino non era tutto uguale, ma c’erano delle differenze notevoli tra scritto e parlato, gli schiavi parlavano il “sermo plebeius” diverso dal “sermo rusticus” dei lavoratori; lo stesso Cicerone utilizzava un “sermo cotidianus” in famiglia e il latino classico durante le arringhe in tribunale.
Con l’espansione di Roma e dell’Impero, ogni volta che veniva fatta una nuova conquista, i vinti acquisivano lo status di civis romanus che includeva anche la lingua di Roma, oltre ai suoi usi e costumi; ma spesso e volentieri la lingua veniva distorta in quanto ogni regione parlava un “suo latino” che risentiva della pronuncia. Con la separazione dell’Impero e le invasioni barbariche la stessa lingua latina entra in crisi perché contaminato da altre lingue.
Su una miriade di dialetti sarà Dante, nel suo De vulgari eloquentia (1303), a proporre l’idea di un’unica lingua, passando in rassegna i vari dialetti; diversamente da quel comunemente si pensa, egli mostra di preferire il siciliano e il bolognese agli altri dialetti”. Di fatto Dante fa solo un’analisi dei dialetti, sarà Pietro Bembo (1470 – 1547) che sulla scia del prestigio delle “tre Corone” – Dante, Petrarca e Boccaccio – e su un’analisi di Firenze come maggior centro politico, economico e sociale riuscirà ad imporre il ‘fiorentino colto’ come la lingua capace di unificare i vari dialetti.
“In Italia si può parlare propriamente di ‘dialetti’ solo a partire dall’affermazione del fiorentino come lingua nazionale, e cioè dal XV – XVI secolo”. Si sviluppa cioè la “consapevolezza di una netta distinzione tra la lingua – usata soprattutto per scrivere documenti e testi letterari – e il dialetto, usato per comunicare oralmente in un territorio limitato, nelle circostanze usuali della vita quotidiana” [dal testo citato].
Una volta acquisita vita propria, la lingua italiana si è evoluta nel tempo in modo autonomo, svincolandosi dalle sue origini, cosicché il toscano-fiorentino è tornato nell’alveo dei ‘dialetti’, alla stregua di tutti gli altri.
Partendo dalla carta geografica dell’Italia possiamo disegnare delle linee per identificare alcune differenze fondamentali tra i dialetti. E allo stesso tempo gli aspetti di similarità.
I raggruppamenti dialettali in Italia (derivazione: come sopra)
Al nord della linea La Spezia-Rimini, troviamo i dialetti del nord: i dialetti settentrionali sono accomunati dalla mancanza di consonanti geminate (o doppie): in corrispondenza delle doppie dell’italiano standard, del toscano e dei dialetti centrali e meridionali, i dialetti del Nord hanno consonanti ‘scempie’.
‘Scempiare’: il ridurre o diventare semplice ciò che era doppio; in particolare, in linguistica, con riferimento a consonanti rafforzate che per qualche motivo diventano o vengono pronunciate semplici, ovvero scempie: ad es. (ligure): panu «panno»; (piemontese, lombardo, veneto, emiliano): galina «gallina», vaca «vacca», stopa «stoppa», ecc.; nell’area veneziana la peculiarità dell’accoppiamento delle vocali in presenza della laterale (l) così che gondola dia gondoa ecc…
Per fare altri esempi, al sud della linea Roma-Ancona troviamo i dialetti meridionali:
l’area napoletana dove la dentale (d) diventa una vibrante (r); per esempio Madonna à Maronna;
l’area romana ha come caratteristiche proprie il ‘rotacismo’ che è la trasformazione della (l) in (r), ad esempio il gatto > er gatto, e anche lo ‘scempiamento’ della (r): la guerra > ‘a guera, la terra > ‘a tera; al contrario presenta anche, come il napoletano, fenomeni di ‘raddoppiamento’: più forte > più fforte, a Roma> a Rroma; altre volte si comporta diversamente: il fuoco (rom.) > er foco, (nap.) > ‘u ffuoco.
E si potrebbe continuare con mille esempi e variazioni… Ma non facciamoci spaventare da queste cadenze inconsuete; al napoletano e al ponzese ritorneremo nelle prossime puntate… Oh, se ritorneremo!
“Me diceve… turnarraggie, comme tornano li rrose…” (leggi qui)
’I ’rrose ’i Santa Rita, i vintiduie ’e maggie
[La dialettologia. (1) – Continua qui]