di Francesco (Franco) De Luca
per Graffiti nella ponzite. 2. (leggi qui)
Papà Cesare si era ritirato. Fin da piccolo Luca ricordava l’abitudine del padre di rincasare dopo aver trascorso le ore del vespro giocando con gli amici.
Due erano i bar in piazza: il bar Amato e il bar Tripoli. Di solito Cesare se la intendeva con gli impiegati statali e i pensionati , e si giocava al bar Amato.
Quella sera a Luca, poteva avere sei o sette anni, la madre chiese di andare a chiamare il padre. La richiesta era insolita ma Emilia aveva bisogno del parere del marito per un fatto che Luca non capì. Né volle capire perché a quell’ora a lui non era permesso di uscire e tanto meno recarsi al bar. Gli parve un’ occasione da non perdere.
Dalla “loggia del giudicato” alla piazza è un salto. Ma occorre scendere due rampe di scale affogate nei caseggiati. Le uniche luci erano: in una rampa, quella che dava risalto all’immagine della Madonna delle Grazie, aggrappata al muretto in alto; l’ altra, era una lucetta che nemmeno riusciva a mostrare il viso del santo raffigurato. E poi il vento fra quegli stretti angoli creava strani fruscìi, come avvertimenti, come bisbigli impronunciabili. Cosicché quando uscì dall’arco di Pascarella e si immise sul Corso gli sembrò di aver scampato nascosti pericoli. Una liberazione.
Qui l’ illuminazione stradale era confortevole ma soprattutto lo rassicurarono gli occhi che incrociò.
Il bar Amato lumeggiava là in fondo e Luca vi si diresse. L’ingresso era quasi ostruito da un muretto di schiene. Tutti uomini in piedi. L’odore del fumo era avvolgente come Luca non aveva mai sentito.
La sala interna era occupata dalla sagoma del bigliardo. Stavano giocando. Da suo padre aveva catturato un giudizio lusinghiero come giocatore su Silverio Amato. Lo riconobbe fra i giocatori per la sua figura alta ed elegante.
Silverio era amico del padre e, quando lo riconobbe, lo indirizzò ad un tavolino. C’era già passato davanti ma non aveva individuato nessuno. Si fece largo fra quegli omoni che contornavano i giocatori.
E li vide. Erano solo quattro a giocare. E tutt’ intorno un crocchio di uomini che parlottavano, discutevano, commentavano.
Quando papà Cesare lo scorse fece una viso che prontamente da tutti fu capito, e si fermarono.
Il padre lo guardava meravigliato, indispettito. Se ne accorse un altro giocatore, che Luca conosceva. Era Filippo u lanternaro. Rivolto a Cesare disse: “u uaglione t‘ è venuto a chiammà. S’ è fatto tardi“.
Luca annuì con la testa e Cesare si rabbonì.
“Allora iammucenno, facimmo ca n’ ha venciuto nesciuno, stasera. Facimmo patta“
Questa decisione fu una fortuna per Luca, perché si giocava “a caramelle”, nel senso che i vincitori prendevano il corrispettivo della posta in caramelle. E quella sera dalla propria parte ognuno diede una manciata a Luca.
Ripresero la strada per casa. Nessun turbamento ora, perché il padre gli era accanto.
La sera aveva iniziato il suo cammino e tutti avevano l’aria di rincasare: In autunno l’umido attende quel momento per adagiarsi sui giubbotti e mordere le spalle. Le pietre del Corso già erano scivolose e la luce dei lampioni nebulosa, inspessita.
Decisamente straordinaria era per Luca l’esperienza che stava vivendo.
L’universo dei passanti gli scorse davanti impressionandolo. Così quella figura che aveva già incontrato per il paese, dall’andatura ciondolante e sgraziata la riconobbe. Era Silverio u matto. Con un pastrano addosso, sino ai piedi, stava all’imboccatura del Municipio, nell’atto di aspettare. E con lui altra gente.
“Aspettano che Vecienzo u pustino consegni la posta“ anticipò Cesare al figlio.
Ce n’ era infatti di gente. A quel che si vedeva, tutto il corridoio della scalinata del Municipio era piena di gente. Nella semioscurità, fra l’attenzione di un gruppetto di ragazzi, nello slargo del Monumento ai Caduti, Silverio pelé giocherellava con una palla. Qualcuno vociava, chiamando l’amico al quale Vincenzo doveva consegnare una raccomandata.
Cesare salutò il maestro Valiante che, immancabilmente, ogni sera discorreva con Giannino, passeggiando su e giù per il Corso.
A casa, Luca mostrò alla madre il bottino delle caramelle. Erano quelle con la carta rossa: le Rossana.
Mancava la mamma. A quei ricordi mancava la mamma. Non si soffermò su di lei, non ne ebbe il tempo. Cesare lo aveva abbracciato e lo stringeva debolmente. Aveva settanta anni.
“Mica sei andato a giocare a carte ?“- buttò lì Luca.
“No … e con chi gioco ormai. Sono tutti morti gli amici“
“Ma va – riprese il figlio – non dire fesserie“
“No, caro mio, quella cui alludi tu era un’ altra vita. Caro mio“.
silverio lamonica1
17 Aprile 2013 at 15:55
Tra la folla ad aspettare “Vcienz ‘u pustiero” (al secolo Vincenzo Capone, di cara memoria) spesso c’ero anche io. Vincenzo era molto svelto a catalogare e a consegnare la posta. Di solito, dopo circa mezz’ora dall’arrivo dei sacchi postali in ufficio, Vincenzo usciva e si rivolgeva ai presenti: “Pe’ te nun ce sta niente, te ne può gghi. Pure pe’ te .. niente. Tu aspetta. Tu, invece te ne può gghi … tu aspetta”. E così via, accompagnando la comunicazione orale con gesti eloquenti della mano. Poi, terminata la “selezione” rientrava per uscire poco dopo con plichi e lettere che consegnava ai compaesani rimasti.
Andare all’ufficio postale, dopo l’arrivo del piroscafo era un rito che seguiva l’altro rito dell’arrivo del postale.
Ma Vincenzo si recava, logicamente, anche a domicilio per le consegne. Spesso raccontava aneddoti divertenti. “Un giorno – disse una volta – andai a consegnare una lettera tassata ad una vecchietta sopra gli Scotti. Io le dissi: è tassata, mi devi dare 100 lire. Quella mi rispose: Viciè … cient’ lire … e chi ‘i ttene … famme scarzià (fammi lo sconto) … alla fine capì che avrei dovuto rimettercele io le lire rimanenti e così, a malincuore, mi consegnò la somma prevista”.
Vincenzo era un postino altamente professionale e non voglio aggiungere altro.