di Carmine Pagano
Le storie popolari ponzesi sono ricche di personaggi fantastici.
Chi non ha mai sentito della “voccola con i pullicini d’oro” che nelle notti di plenilunio si avvistava nel tunnel di Chiaia di Luna? E dei tanti che hanno tentato di prenderla senza peraltro non riuscirci mai?
Oppure si raccontava di avvistamenti di un animale, simile ad un somaro, che correndo emanava una gran luce dalla testa.
Ma la figura che più ricorreva nelle storie dei nonni era il “munaciello”. Folletto dispettoso, a volte generoso e a volte indisponente, che era presente in molte case della Ponza antica. Se di notte sentivi un rumore provenire dall’armadio era sicuramente lui che stava rovistando tra la biancheria, per annodare lenzuola o intrecciare tovaglie e asciugamani. Oppure era in cucina a rompere piatti, o a far andare in aceto il vino, oppure a rovesciare il fiasco dell’olio. Se di notte avevi un peso sul petto che non ti faceva respirare era sicuramente “lui” che ci si era seduto sopra. Se la dormiente era una bella donna, il nostro piccolo amico, non si faceva scrupolo ad infilarsi sotto le lenzuola per palpeggiarla. Era anche generoso, portava dolcetti e monete d’oro ai bambini, e aiutava le massaie, che gli erano simpatiche, svolgendo loro alcuni lavori domestici.
Ci viene descritto come un ometto, con il saio da monaco ed un berretto di lana rosso in testa. La tradizione popolare lo vuole presente in tutto il meridione d’Italia, assumendo diversi nomi: Munaciello in tutta la Campania, Scazzamurrill’ nel Foggiano, Scarcagnulu nel Brindisino, Mazzemarill’ in Abruzzo e Molise, c’è addirittura una versione nordica, in Emilia Romagna, conosciuto come Mazapégul.
L’origine del mito del “munaciello” si può far risalire a quello dello spirito incubo citato da Petronio Arbitro, Plino ed altri nell’antica Roma, ma può essere accostato, per altri aspetti, alle figure dei Lari e dei Penati.
La grande scrittrice napoletana, Matilde Serao, ce ne dà una origine storica. Era l’anno 1445, a Napoli regnava Alfonso d’Aragona, una giovane e bella fanciulla, Catarinella Frezza, figlia di un ricco commerciante di stoffe, si innamorò di un giovane garzone, Stefano Mariconda. Il giovanotto, arrampicandosi sui tetti e saltando su terrazzi e balconi, le notti andava a far visita alla sua innamorata. Una tragica notte trovò alcune persone ad aspettarlo, che afferratolo per le braccia lo gettarono di sotto, uccidendolo. La giovane Catarinella, folle di dolore, fuggì di casa rifugiandosi in un convento. Di lì a pochi mesi, aiutata dalle monache, diede alla luce un bimbo. Il piccolo non cresceva, e la povera Catarinella disperata fece un voto alla Madonna, fece cucire dalle suore un saio bianco e nero e con quello fece vestire suo figlio. Quando questo ragazzo deforme si aggirava per i vicoli di Napoli, veniva deriso dalla popolazione e lui, indispettito, reagiva tirando manciate di fango addosso ai passanti, rovesciando masserizie, rompendo vetri. Quando poi, anche la madre morì, divenne ancora più aggressivo, aggirandosi solo di notte e diventando una presenza veramente inquietante per la città di Napoli, nacque con lui il mito d’u Munaciello.
Anche noi, come ogni famiglia che si rispetti, abbiamo avuto il nostro “munaciello”. Raccontava mio nonno che suo padre nei primi anni del ‘900 comprò un podere denominato “la Masseria”, mentre si apprestavano al trasloco, tra mobilio e masserizie accatastate sulle carrette, c’era anche il “munaciello” che canticchiava: ”…mò jamme a casa nova, mò jamme a casa nova…”.
Era l’estate del 1918. Catello era appena tornato dal fronte, aveva riabbracciato la giovane moglie Bonaria ed i figlioletti, Carmine di tre anni e Livia di pochi mesi.
I tempi erano grami e le condizioni economiche della famiglia erano disperate, non c’erano neanche i soldi per comprare il latte per i bambini. Ma era il 20 di giugno e San Silverio da onorare, da andare a Messa e partecipare alla solenne processione. Si stavano preparando, quando Bonaria chiede al marito: “Catié’, piglia i scarpette d’u guaglione a dint’a culunnetta”.
Catello apre lo sportello del comodino, prende le scarpette del bimbo e rimane di sasso… all’interno delle scarpe trova alcune monete d’oro.
– “Zitta nun parlà! Non fare un fiato con nessuno!” dice alla moglie “Sinò il prodigio finisce!” ed infatti il miracoloso ritrovamento si prolungò per alcune settimane. Era opera di una fata benevola che aveva preso a cuore quella famiglia.
E’ il ricordo di mia nonna, che a distanza di tanti anni, piangeva ogni volta che ci raccontava questa storia, la storia della fata buona, della bella signora che li andava a trovare a loro insaputa, della “Bella ‘Mbriana”, come la chiamano a Napoli, che passa per le case delle persone più indigenti e lascia loro un segno tangibile del suo passaggio, e la cultura popolare vuole che in ogni casa venga lasciata un sedia vuota affinchè lei possa sedere e riposarsi.
È un bel po’ di tempo che non si sentono più storie come queste, forse dal tempo della mia infanzia, intorno agli anni sessanta del secolo scorso.
Ma allora Fate e Munacielli sono spariti?
Penso proprio di no, loro sono ancora tra noi, ma siamo noi ad essere cambiati e non riusciamo più a vederli.