di Vincenzo Di Fazio (Enzo)
Mio padre aveva l’abitudine di consegnare ogni fine mese l’intero stipendio, appena riscosso, a mia madre, trattenendo per sé solo quel tanto sufficiente per le sigarette, le nazionali senza filtro dall’inconfondibile pacchetto verde con il disegno della caravella.
Lo faceva perché aveva trovato in lei una saggia amministratrice. “Velia tene ‘i mmane d’ore” – soleva dire.
Mia madre sapeva come distribuire quel danaro tra ciò che occorreva per vivere decorosamente, ciò che doveva essere destinato alle bollette periodiche ed al cibo per le galline e ciò che poteva invece essere risparmiato.
Si realizzava, così, in famiglia tutta una serie di principi economici, tra cui quello importantissimo della pianificazione che mia madre poneva in essere con ineccepibile competenza, visto che il bilancio mensile della piccola azienda familiare si chiudeva spesso con un utile.
Era brava lei, ma occorre ricordare che eravamo fortunati ad avere un’entrata certa ogni mese ed erano anche tempi molto diversi dagli attuali.
Le bollette da pagare si limitavano a quelle della luce, del gas in bombole e, solo più tardi, a quelle del telefono.
Si utilizzava l’acqua piovana raccolta attraverso la canalizzazione dal tetto verso il pozzo. Il giardino coltivato assicurava ogni ben di Dio.
I vestiti passavano dai figli più grandi a quelli più piccoli man mano questi crescevano, fino a quando, non più utilizzabili, si trasformavano in strofinacci per la cucina.
In ogni casa c’era una macchina da cucire “Singer” e cesti pieni di gomitoli di lana di ogni tipo.
Gli ombrelli si riparavano, così come le sedie con la seduta di paglia; il calzolaio Ciccillo, nella bottega agli inizi di corso Pisacane, alle punte delle scarpe di noi bambini applicava, per frenarne l’usura, ‘i centrélle, delle piastrine di ferro a forma di mezzaluna.
Dall’America arrivavano i pacchi dai contenuti variopinti: vestiti dismessi, spesso coloratissimi, che venivano utilizzati quasi sempre per ricavarne abiti per i bambini , qualche jeans dalla taglia quasi mai giusta, le scatole di Nescafé con scritte incomprensibili e qualche oggetto strano, come i rasoi con le lame Gillette, espressione di un benessere che, involontariamente importato, cominciava ad incuriosirci.
Tutto veniva conservato, modificato là dove possibile e riutilizzato.
Per quello che io ricordo stavamo bene, non ci mancava nulla, le relazioni umane erano il condimento delle giornate, avevamo dei sogni in cui credere e che il più delle volte abbiamo realizzato.
La società consumistica ci ha portato all’esasperazione dell’uso e getta.
Alle cose, prima, ci si affezionava, rappresentavano spesso un ricordo dei genitori o dei nonni; si riconosceva ad esse un’anima. L’oggetto si buttava solo quando, rotto o non riparabile, ormai non poteva esprimere più utilità.
Oggi sono le mode a prevalere.
Pensate ai telefonini. Il ricambio è continuo, il consumismo non dà il tempo di legarti all’oggetto. Siamo prigionieri delle mode.
Questo stile di vita, se da una parte ci ha abituati ad una serie di privilegi e comodità cui ci sembra di non poter rinunciare, dall’altra induce a farci delle domande su cosa sia veramente il benessere.
Ci hanno detto che era legato al consumismo al punto da portarci a credere che l’uscita dalla crisi in cui versiamo ed il miglioramento delle condizioni di vita cui tendiamo debbano passare solo per una ripresa dei consumi.
Ma siamo certi che sia proprio così?
Molto simpaticamente Sandro con il suo articolo “Categorie in evoluzione. All’indice del PIL, preferiamo il FIL” (leggi qui) contrappone all’indice del PIL quello del FIL, intendendo per FIL la felicità interna lorda, obiettivo non legato tanto al benessere materiale quanto piuttosto a quello interiore.
Ebbene a mettere in discussione le teorie tradizionali di sviluppo economico sono in tanti e sempre più economisti ed addetti ai lavori visto che, da qualche tempo si comincia anche a parlare di BES, acronimo di Benessere Equo e Sostenibile, concetto molto più vicino al FIL che non al PIL.
BES è un indice composto da 12 indicatori, tra cui salute, istruzione, lavoro, paesaggio e patrimonio, politica, sicurezza.
L’ha messo a punto l’Istat in collaborazione con il Cnel e ne è stato presentato il primo rapporto l’11 marzo scorso alla Camera.
Scrive Valentina Conte su Repubblica di qualche giorno fa: “Il Bes non misura la felicità, né rimpiazza il Pil; ma va oltre, lo affianca, lo completa e lo supera. E può cambiare l’agenda della politica…”
Molto interessante quello che dice, in merito, Enrico Giovannini (presidente dell’Istat):
“…non tutto ha un prezzo: il sorriso di chi ci circonda, la solitudine, l’ansia di non avere un lavoro, l’aria che respiriamo, la biodiversità… Il Bes può cambiare il dibattito pubblico ed orientare meglio le scelte della politica, promuovendo un modello di sviluppo diverso con al centro la persona, non i prodotti.
Ed ancora:
“Veicolare il messaggio che avere carceri umane, sconfiggere il femminicidio, valorizzare il patrimonio culturale, preservare l’ambiente, leggere libri, sostenere la ricerca, restituire credibilità alla politica migliora la vita di tutti. E poi fa crescere pure il Pil e l’occupazione.”
Questo nuovo modo di analizzare i problemi ci incoraggia e può veramente portare alla valorizzazione di tutto ciò che di ricchezza dimenticata c’è in noi e nel territorio.
Dice ancora Giovannini: “L’obiettivo che ci poniamo è trovare risposte a domande che riguardano la storia da cui veniamo, il presente e soprattutto il futuro che vogliamo costruire”
Ed allora forse non è riduttivo recuperare i comportamenti buoni del passato, come la cura delle relazioni umane, il rispetto per l’ambiente, l’utilizzo parsimonioso delle cose, la dignità dei lavori umili per implementarli con le azioni quotidiane di oggi in modo da trovare la forza per superare i momenti difficili del nostro tempo e tendere alla conquista di un domani migliore.
Charles Franklin Ketterling, grande inventore e uomo d’affari, diceva che “tutti dovremmo occuparci del futuro, perché là dobbiamo passare il resto della vita”.