di Silverio Tomeo
L’isola di Utopia (ou-tòpos, vale a dire in nessun luogo) si stende per 200 miglia per la parte di mezzo, la più larga, si assottiglia ai due capi che “piegandosi, come tracciati dal compasso, per 500 miglia di perimetro, danno all’insieme la forma di luna nuova”, così come l’immagina San Tommaso Moro (Thomas More, 1477-1535) nella sua opera L’Utopia pubblicata nel 1516 in Inghilterra.
Questo romanzo-trattato “domina l’epoca e non cessa di provocare il lettore contemporaneo”, scrive Julia Kristeva in Stranieri a se stessi (Feltrinelli, 1990), e in uno spirito democratico, influenzato dalla Repubblica di Platone, rappresenterebbe un vero e proprio manifesto di “umanesimo cristiano” scritto su una trama intessuta di navigazioni, scoperte geografiche e miti del “buon selvaggio”.
In quel contesto tra la fine del ’500 e l’inizio del ’600, dove fioriscono una quantità di libelli utopici, abbiamo anche La nuova Atlantide di Francis Bacon e La città del sole di Tommaso Campanella, altre isole utopiche.
Raffaele Itlodeo, il personaggio centrale di Utopia che avrebbe visitato ‘l’isola che non c’è’, narra – come sintetizza la Kristeva – come lì si “detesta la tirannia, si dividono tutti i beni, si è abolita la proprietà privata, si lavora soltanto sei ore al giorno, si gestisce in modo accorto l’assistenza sociale e il tempo libero, si rispettano la cultura e la religione”, ma in compenso non mancano aporie e contraddizioni, si giustifica il peso che la collettività impone all’individuo e si giustifica il colonialismo e lo schiavismo, e “il moralismo e la pianificazione abusiva preannunciano Orwell”.
Julia Kristeva conclude così: “se tutte le utopie paiono oggi realizzabili, se la vita moderna è in procinto di dar loro compimento, forse dovremmo evitarle per ritrovare una società non utopica, meno perfetta e più libera… Ma come essere liberi senza qualche utopia, senza qualche estraneità? Situiamoci pure da nessuna parte, ma senza dimenticare che da qualche parte stiamo…”.
Nelle intenzioni di Thomas More ci sarebbe stata la voglia di giocare anche sul termine di eu-tòpos, dove eu sta per buono, quindi sia isola senza luogo (ma che tanto assomiglia alla sua Inghilterra) che luogo buono, favorevole al giusto. Avrebbe scelto Utopia piuttosto che Eutopia per non urtare l’intolleranza del regime politico del suo tempo, che poi per altri motivi arrivò comunque a giustiziarlo.
Un’ampia ricognizione del filone utopico, dai miti edenici e messianici sino all’utopia realizzata in modo tanto controverso dall’esperimento sovietico, è L’Utopia. Rifondazione di un’idea e di una storia di Arrigo Colombo (Dedalo, 1997) che ha fondato il Centro di ricerca sull’Utopia dell’Università del Salento.
È quasi impossibile riassumere il pensiero dell’utopia e della sua critica, basta pensare al socialismo utopico e alla critica che ne fecero Marx ed Engels in direzione di un pensiero razionale del cambiamento sociale, all’idea di Ernest Bloch sul principio-speranza, al confronto con l’escatologia ebraica di Walter Benjamin, alla teoria critica di Theodor Adorno. La critica liberale e pragmatica al pensiero utopico, anche di fronte all’incubo delle utopie totalitarie e organicistiche, è piuttosto prolifica.
Di distopìe (utopie negative) è piena la narrativa di science finction.
Utopie regressive verso un Eden immaginario, utopie escatologiche per universi totalitari, utopie tecnocratiche per lo spossamento e la reificazione dell’umano e del vivente, si sono via via affacciate o paventate.
Utopie libertarie, di democrazia radicale, di società di giustizia, sono pure state avanzate.
Come nelle utopie sociali realizzate storicamente si sia poi visto in opera l’eterogenesi dei fini è noto, non può essere rimosso, ma neppure banalizzato. “Un altro mondo è possibile e necessario” è stato lo slogan dei movimenti collettivi sociali del primo decennio degli “anni zero” a partire da Seattle, Stato di Washington, il 30 novembre 1999.
Quindi la forza della tensione utopica rimane viva e agisce tuttora nella storia del moderno.
Un socialista libertario come Oscar Wilde scriveva al riguardo: “Una carta del mondo che non contiene il Paese dell’Utopia non è degna nemmeno di uno sguardo, perché non contempla il solo Paese al quale l’Umanità approda di continuo. E quando vi getta l’ancora, la vedetta scorge un Paese migliore e l’Umanità di nuovo fa vela”.
L’humus dell’immaginazione utopica si costruisce non a caso agli albori della “grande trasformazione” (come Karl Polany chiama il lungo processo storico che porta alla società di mercato e al capitalismo finanziario internazionale), dalle enclosures – la recinzione della terra, dei pascoli e dei boschi – alla rivoluzione industriale in Inghilterra e poi in Europa e America del Nord, all’impianto della Tecnica nel sistema di produzione e nella stessa costituzione sociale.
L’idea di progresso, che ha una sua ben precisa genealogia, è oggi screditata ed in crisi, appare legata a una vulgata che dalla fine del XVII secolo all’Illuminismo e poi al determinismo vedeva agire come una legge storica in direzione delle “magnifiche sorti e progressive” (come le chiama con amara ironia Leopardi nella Ginestra).
Anche l’immaginazione utopica è costretta oggi a tener conto dell’indeterminatezza dell’essere e del corso storico, delle forze distruttive che agiscono nella tarda modernità, dei rischi connessi al tentativo di “raddrizzare il legno storto dell’umanità”.
Di tutta una proliferazione di isole misteriose, isole del tesoro e dell’avventura, isole-serraglio, è piena la letteratura degli ultimi secoli.
Ad esempio L’isola di Aldous Huxely, scritta in curiosità psichedelica, l’isola-esilio del dramma La tempesta di William Shakespeare, le isole di Melville, Conrad, Hemingway, Stevenson.
L’immaginario letterario dell’isola come luogo dell’anima è sterminato.
Tra le meno conosciute c’è l’isola simbolica di René Dumal nel romanzo Il Monte analogo (Adelphi, 1991), luogo dove la montagna unisce il cielo e la terra, che deve necessariamente esistere altrimenti “la nostra situazione sarebbe senza speranza…”, che va cercata in un cammino iniziatico, alla ricerca di una umanità superiore, rispondendo a una voce, a una chiamata. L’isola del Monte analogo è governata dalle guide di montagna che a turno assumono il ruolo di amministratori. Al personaggio della ricerca spirituale dell’isola così viene risposto: “Qui non ci sono indigeni. Tutti gli abitanti sono venuti da altre parti, dai quattro angoli del mondo, come noi”.
Singolare la storia della Voce delle onde (Feltrinelli, 1991) di Yukio Mishima, ambientata in un’isoletta del Giappone nel primo dopoguerra, storia d’amore di una coppia di adolescenti.
Il ragazzo si sente chiamato a partire dalla vista di un candido veliero e dalla voce delle onde, per cui dice alla sua ragazza: “Non importa dove navigherò, io non dimenticherò mai la nostra isola”. E aggiunge: “Farò il possibile per rendere l’esistenza sulla nostra isola più serena che altrove… più felice che in ogni altro luogo… Perché se non riusciamo a fare questo, ognuno lascerà e dimenticherà l’isola, senza più il desiderio di tornarvi”.
Sentimenti molto vicini a quelli della diaspora ponzese nel mondo.
Quanto all’isola che c’è: se davvero la comunità residente dell’isola-madre si auto-concepisse come un’azienda turistica allargata e non come una comunità democratica e aperta, attraversata da differenze di età, di genere, di opinione e di classe sociale, di interessi e di bisogni, allora forse sarebbe meglio eleggere direttamente un consiglio di amministrazione e non un’amministrazione civica.
Ma questa sarebbe allora una pessima utopia.