di Enzo Di Fazio
Continuo a raccontare, dopo una pausa di qualche mese, delle emozioni legate ai ricordi dei miei primi giorni vissuti al faro della Guardia.
Al di là del piacere della rievocazione, lo scopo è quello di tentare di far conoscere, seppure attraverso gli occhi di un bambino e la penna di un adulto, dei luoghi speciali (ove ho trascorso momenti bellissimi della mia infanzia) che spero possano diventare presto patrimonio di tutti.
per la parte (5) – leggi qui
Quella prima notte al faro la trascorsi in maniera agitata nonostante avessi nelle gambe la stanchezza della lunga camminata.
Dormivo di fianco a mio padre nella grande camera dell’alloggio che gli era stato assegnato.
Faceva freddo, la stufa di dotazione aveva consumato gli ultimi legni già verso le nove e il calore, mentre avanzava la notte, ce lo davano due coperte pesantissime, di quelle militari di lana grezza.
La stanza sembrava enorme anche perché v’erano poche cose. Il letto, due comodini, un piccolo armadio ed una sdraio che mio padre si era portato da Zannone dove l’aveva costruita.
Le pareti disadorne ne dilatavano la grandezza e le conferivano un’aria pesante alleggerita solo dalla presenza di una grande finestra che dava a ponente su Palmarola.
Quella finestra, vista di giorno, mi era sembrata subito una specie di enorme tela per quello che avvicinandoti vi si scorgeva.
Uno scenario bellissimo.
A destra, la punta del fieno con i filari di viti coltivate fin quasi a toccare il mare e più in là il candore di punta capobianco; in fondo, all’orizzonte, l’isola di Palmarola, il tutto immerso in spennellate di blu ed azzurro dalle tante sfumature che solo quel mare e quel cielo potevano suggerire.
Imparai, col tempo, ad apprezzarne il valore ed il fascino per la mutevolezza che l’accompagnava.
I colori di quella tela cambiavano secondo il tempo e le stagioni.
Vivi, accecanti, ruffiani durante l’estate; minacciosi e inquietanti durante le rabbiose tempeste invernali; cupi e piatti durante le giornate di pioggia.
Di notte, invece, sempre la stessa, alta fino al soffitto, indefinibile per via di quel colore grigio militare che la vestiva.
Col buio, se ne scorgevano le forme solo quando lo sguardo l’attraversava, richiamato dai fasci di luce che il faro, girando, faceva scivolare lungo il costone di ponente della roccia della “scarrupata”.
Lo scorrere di quei fasci luminosi, percepito attraverso gli scuri tenuti volutamente non del tutto accostati, consentiva, pur stando a letto, di controllare che il faro funzionasse regolarmente.
Avevano una cadenza determinata quei raggi.
Quando ero stato nella grande torre di vetro dove c’era la lanterna, mio padre mi aveva detto della loro grande portata visto che arrivavano fino ad una distanza di 24 miglia; mi aveva detto di come fossero le ottiche, con quegli strani vetri dentellati, ad amplificarne la potenza; mi aveva parlato della “caratteristica” e si era soffermato a lungo sulla combinazione tra i momenti di luce e quelli di buio (“eclissi”) sottolineandone l’importanza, visto che era proprio quell’insieme di dati a far distinguere un faro da un altro.
C’erano numeri e termini tecnici in quello che diceva.
Cercò di semplificarmene il senso ma di quella prima “lezione” – ricordo – mi rimase solo che il faro compiva un giro completo in 30 secondi e che in questo giro i fasci luminosi alternati ai momenti di buio erano tre.
Quella prima notte, dal letto, allungando lo sguardo oltre la sagoma di mio padre che mi era accanto, cercai, impegnandomi a contare più volte fino a trenta, di scorgere, per quello che gli scuri socchiusi mi consentivano di vedere, un giro completo dei fasci luminosi.
Non ricordo d’esserci riuscito.
Crucciato mi voltai dall’altra parte e, non riuscendo a prendere sonno, cominciai a ripercorrere le emozioni di quel primo viaggio fatto poco prima del tramonto.
Lungo la strada che ci aveva portato al faro erano tante le cose da cui ero stato attratto: la presenza di piante in prossimità del mare, lo svolazzare di alcuni uccelli tra la macchia sparuta ai piedi della montagna, un formicaio al lavoro sul ciglio della strada, le forme strane di alcuni massi.
Avrei voluto fermarmi per coglierne i dettagli e forse l’avrei fatto se non ci fosse stato mio padre a spronare il cammino.
Nei bambini spesso la meta, propria della razionalità dell’adulto, non è l’arrivo ma il percorso stesso con le sue curiosità.
Quei vuoti mi erano restati dentro ed erano lì ad alimentare l’insonnia.
Come le domande rimaste sospese senza forma, quando avevo allungato lo sguardo oltre la porta della grande sala dell’officina o quando mi ero appena affacciato al locale ove era collocato il gruppo elettrogeno o, ancor di più, quando avevo attraversato, per raggiungere la sommità della lanterna, la bella saletta circolare che ospitava l’anima del faro, un’ ingegnosa strumentazione tutta di ottone racchiusa in una teca di vetro.
Quelle curiosità inappagate mi rendevano inquieto… ma era solo il primo giorno e ne avevo di tempo per impadronirmi di parte di quel mondo…
I fasci luminosi lasciavano, a tratti, nella stanza dei bagliori di luce. Per un po’ li seguii nel loro periodico roteare, percependoli addosso quasi come una carezza.
La tensione che mi aveva tenuto sveglio fino ad allora andava diluendosi.
Mi resi conto che un sogno nato al chiuso, tra le pareti di casa, stava prendendo magicamente forma lì, su uno sperone di roccia proteso verso il mare.
Mi sentivo orgoglioso di essere con mio padre nella pancia di quel gigante solitario, guida e certezza per i naviganti, con la sua dirompente luce, nell’ignoto della notte.
Ormai stanco chiusi gli occhi e, senza accorgermene, mi addormentai.
Fari e ricordi (6) – continua