Ambiente e Natura

Pesca “miracolosa”

di Sandro Vitiello

 

Avrò avuto 10-12 anni.
Finita la scuola ai primi di giugno iniziava la mia vita di pescatore.
“Pescatore d’acqua dolce” come diceva mio padre perchè, a me che era proibito di andare a pescare con la barca da pesca di famiglia, era concesso di usare una piccola barchetta di legno e quattro stracci di reti.

Quasi tutti i giorni ero in mare per due, tre ore, la mattina presto e quasi sempre portavo a casa qualche chilo di pesce.
La zona in cui potevo avventurarmi era abbastanza modesta: da Cala Cicata al Caparanno.
Poche centinaia di metri di mare, tutte a portata d’occhio di mia madre che, dal cortile di casa, poteva vedermi.
Considerando le mie braccia non erano poi così robuste, non potevo certo spingermi al largo perchè, con un mare più profondo non avrei avuto la forza di rimettere a bordo le reti. Quasi sempre reti ma anche qualche piccola nassa.

Imparai tante cose in quel tempo: per esempio che se, dopo un violento acquazzone si buttano le reti vicino agli scogli affioranti, c’è qualche buona possibilità di prendere tanti pesci.
Comunque i miei pesci erano di piccola taglia, buoni sicuramente ma non potevano certo essere considerati dei trofei da esibire.
Una mattina pensai bene di allontanarmi un po’ di più al largo, dritto fuori alla punta della Cicata.
Feci scorrere da poppa le mia rete che da lì a pochi minuti si sarebbe appoggiata dolcemente sul fondo del mare.
Legai correttamente i pedagni (lunghe funi) alle due estremità della rete e mi avviai verso riva.
Non feci caso alla corrente marina, d’altronde non ne capivo granché.
Calcolai che potevano esserci una quarantina di metri di profondità, dove avevo lasciato le reti.
Avevo messo una cinquantina di metri di pedagno.
Ero tranquillo, insomma.

L’indomani mattina uscii come sempre verso le sei, presi la barchetta e dopo una decina di minuti a remi arrivai sul luogo di pesca.
Un mare calmissimo, senza nessuna increspatura.
Il sole ancora nascosto dietro l’isola: nessun luccichio – di quelli che confondono la vista – sulla superficie dell’acqua.
Mi guardo in giro e dei miei galleggianti neanche l’ombra.
Vado un po’ più fuori, faccio un giro più largo, incomincio a fare su e giù ma i galleggianti non ci sono più: scomparsi.
Ormai il sole è alto e dopo due tre ore di inutile ricerca mi convinco che qualche “ladro” si è portato via le mie reti.
Saranno state pure scassate ma quelle reti erano per me una bella opportunità. Mi facevano sentire grande, mi facevano essere partecipe dell’economia della famiglia, mi davano quasi un ruolo sociale.

Tornai a casa abbastanza arrabbiato e nel pomeriggio, quando mio padre tornò, dopo avergli raccontato il fatto lui mi disse che, probabilmente, le mie reti erano state portate dalla corrente marina, nel loro scendere verso il fondo del mare, verso il largo, ad una profondità maggiore e il pedagno che gli avevo attaccato non era bastato o forse semplicemente quando sono andato a recuperare le reti c’era tanta corrente che ha tirato sotto il pelo dell’acqua il galleggiante.

E quindi? Le ho perse?
No, basta usare un trucco e sperare di acchiappare quel galleggiante che cerca di guadagnare la superficie ma che rimane nascosto sotto l’acqua.
Vabbè, proveremo, anche se ho forti dubbi sulla mia capacità di capire come corre la corrente.

Sta di fatto che la mattina successiva io ero lì, armato di una lunga fune alle cui estremità avevo attaccato dei galleggianti.
Il trucco per recuperare le mie reti era quello di stendere sul pelo dell’acqua questa fune sopravento alla corrente e lasciare che questa, inabissandosi al centro e trasportata dalla corrente, nella sua parte sott’acqua andasse a sbattere contro il pedagno e dopo essersi afferrata a questo, unendo le due estremità, forse ce l’avrei fatta a riportare in superficie galleggiante, pedagno e reti.

Mi stavo preparando a sperimentare questa tecnica quando vidi a filo dell’acqua, nella caduta dell’onda lunga, il galleggiante delle reti che faceva capolino appena appena, quasi a mandare un SOS. Ne fui contento perchè, sinceramente, non credevo poi tanto al sistema che avrei dovuto sperimentare per salvare le mie reti.
Incomincio a tirare in barca il mio pedagno prima e le reti dopo e appena arrivano in barca i primi metri di queste scopro che sono strapiene di “macciotte”, orribili sassi che compongono alcune zone di deserto sassoso in fondo al mare.
Queste zone del fondale marino noi, in dialetto, le chiamiamo “malo funno”, cattivo fondale. Una disgrazia se le reti vi finiscono dentro.

Incominci a caricare sulla barca quintali di sassi.
All’inizio speri di aver solo sfiorato il disastro e per i primi dieci quindi minuti cerchi di liberare la rete e butti i sassi in mare.
Dopo, quando ti accorgi che tanto tempo è servito solo a mettere in barca pochi metri di rete, incominci a disperare e spesso si decide di abbandonare le reti al proprio destino perchè c’è pure il rischio che a rimetterle in barca si vada a fondo per l’eccessivo carico.
Sta di fatto che il mio orgoglio non mi permetteva di abbandonare quelle reti, faticosamente ritrovate, in quel mare di sassi.
Ho lavorato per diverse ore senza prendere neanche un pesce.

Alla fine, quando stavo per tirare in barca gli ultimi metri della rete quando, con le mani che incominciavano a sanguinare per i troppi sassi liberati dalla rete, compare una macchia rossa in mezzo alla rete, a quattro, cinque metri di profondità.
Ci sarà stata pure la stanchezza ma in quei momenti scompare.
Decido che i prossimi sassi possono pure rimanere nella rete; li toglierò quando torno a terra.
Butto tutto alla rinfusa nella poppa della barchetta; qualche macciotta mi cade sui piedi, qualche imprecazione parte ma in pochi istanti si materializzano sulla murata della mia barchetta due bestie enormi: uno scorfano ed un’aragosta.

Erano grossi, imponenti come mai ne avevo visto.
Lo scorfano sarà stato almeno cinque chili e l’aragosta tra i tre e i quattro chili.
Erano due animali che avevano scelto di vivere in una piccola oasi in quel deserto di sassi e quel mondo, nemico delle reti, li aveva salvati fino a quel giorno.
Erano riusciti a diventare vecchi e raggiungere una dimensione notevole. Erano così grossi perchè avevano potuto vivere molto a lungo.

Sia l’aragosta che lo scorfano non avevano quel tipico colore rosso che li caratterizza.
Avevano delle macchie scure e una tinta che era quasi un colore arancio.
Pesci bellissimi.

In pochi minuti torno a terra, dimentico reti e sassi e corro verso casa a mostrare i miei pesci.
Mi sentivo più grande di mezzo metro; troppo bello!

Il piacere di quella pescata venne esaltato la sera, intorno al tavolo.
Una grande pastasciutta con la mia aragosta e poi scorfano in zuppa.
Giornata indimenticabile.

1 Comment

1 Comments

  1. Silverio Lamonica

    19 Febbraio 2013 at 20:37

    Un bel racconto. Mi ricorda “Il Vecchio e il Mare” di Ernest Hemingway. Però qui si tratta non di un vecchio, ma di un ragazzino intraprendente e di una pesca, tutto sommato finita bene, nonostante i numerosi ciottoli che, a loro volta, rievocano in me la novella del Decamerone del Boccaccio: “Calandrino e l’elitropia”, cioè la pietra che rendeva “invisibili” e perciò Calandrino ne fa incetta… Caro Sandro, continua a scrivere!

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