di Tina Mazzella
per la prima parte (leggi qui)
Sedemmo sopra un muretto di pietra. Dietro le nostre spalle sentieri ricoperti di rovi rendevano difficile l’accesso verso l’interno. Si sentivano solo l’abbaiare dei cani, il gracidìo intermittente delle rane proveniente dal pantano della Cavata ed il diffuso canto dei grilli.
Il mio amico tacque un po’ prima di proseguire quel discorso:
“Anche la mia famiglia era povera, la mamma però riusciva sempre a mettere qualcosa in tavola e non siamo mai rimasti completamente privi dei nostri animali, delle uova, dei preziosi prodotti dell’orto che papà coltivava instancabilmente e che noi consumavamo con estrema parsimonia. I più invece non potevano godere neppure di questi piccoli privilegi ed allora regnavano la disperazione e la totale povertà.
La fame indebolì molte donne, al punto da interrompere il regolare ciclo mestruale e fu la diretta responsabile della nascita di numerose creature deboli e malate.
In quel tempo conobbi Giulia e Silvia, due bambine di circa sette anni che abitavano sulla collina di fronte a casa mia. Le loro famiglie – si diceva – fossero tra le più povere dell’isola: il padre di Giulia era partito per la guerra ed era stato dato per disperso. A Silvia l’indigenza aveva sottratto già due fratellini gemelli in tenerissima età. Entrambe erano gracili e pallide. Ricordo il viso di Silvia così scarno e sofferente da parere trasparente; solo gli occhi, sconfinatamente grandi ed espressivi, lo ravvivavano con la loro luce.
Rivedo ancora quegli occhi selvaggi di bambina che conoscevano il dolore ancora prima di crescere.
Le incontravo quasi ogni sera prima del tramonto mentre rincasavano svogliatamente.
Furono gli occhi di Silvia a chiedermi del cibo, quando rubai per loro, per la prima volta ai miei genitori, dei fichi. La gratitudine delle piccole mi rese più grande ed orgoglioso. Contavo sedici anni allora e, nonostante da tempo lavorassi come un uomo, avevo ancora il cervello di un bambino: mi piaceva ridere e giocare anche con i ragazzi più giovani di me; amavo le favole e talvolta le raccontavo persino a me stesso; non mi ponevo molti problemi e riflettevo poco.
Da quella volta ogni sera le bambine si fermavano davanti a casa mia ed io le aspettavo, perché insieme potevamo parlare ed anche un po’ giocare. Quando mi era possibile, sottraevo alla famiglia qualche frutto e lo conservavo per loro.
In estate ciò era più facile, al tempo dell’uva e dei fichi d’India.
Era un tiepido pomeriggio di fine agosto, allorché le trovai proprio nei pressi di questo muretto; le vidi mentre si arrampicavano a fatica per cercare di raccogliere tra i rovi qualche sparuta mora.
Mi fermai e le aiutai nell’impresa. Infine ci sedemmo qui ed incominciammo a parlare. Giulia mi chiese perché la grotta scavata nella roccia e quasi totalmente nascosta dai rovi, la stessa che attualmente si trova alle nostre spalle, si chiamasse ‘Grotta del Serpente’. La mia fantasia partì subito al galoppo e mi sentii fiero di raccontare la seguente fiaba.
“In questa grotta” – risposi – “per anni visse un enorme serpente.
Una volta questa non era una grotta, bensì una villa patrizia; al tempo dei Romani si chiamava Villa Giulia, sì, portava appunto il tuo nome.
Aveva grandi stanze pavimentate con gusto ed eleganza ed era ricca di mobili raffinati e di oggetti di valore.
L’imperatore stesso vi risiedeva periodicamente con il suo seguito per assistere alla pesca delle aragoste.
Il sovrano era un uomo potentissimo, a cui era permesso ciò che ad altri era vietato. Oltre alla moglie legittima aveva tante altre donne, ma soprattutto ne amava una, la bella Claudia.
Quando seppe che costei stava per sposare un giovane patrizio romano, ne fu indignato e volle punirla: mai nessuno gli aveva fatto un simile affronto, mai nessuna donna aveva osato disobbedire al suo volere per sposare nientemeno che un suddito. L’imperatore, da prepotente qual era, progettò il rapimento della fanciulla: le guardie l’avrebbero imprigionata e relegata su questo scoglio in mezzo al mare; Claudia avrebbe abitato la villa imperiale ma sarebbe vissuta completamente sola dimenticata da tutti.
Anche la sua vita sarebbe stata di breve durata, poiché un grosso serpente velenoso nascosto in un angolo della casa l’avrebbe uccisa in modo del tutto inatteso con il proprio veleno. Quella sarebbe stata la giusta punizione per tanto impudente ardire.
Claudia possedeva un fedelissimo schiavo proveniente dalla Bitinia e dotato di abilità straordinarie. Costui venne a sapere dell’agguato che l’imperatore stava preparando ai danni della padrona e, impietositosi per la sorte di costei, volle aiutarla. Prima che il rapimento avvenisse, le consegnò piangendo un singolare strumento musicale portato con sé dal lontano Oriente: si trattava di una canna dorata sulla cui superficie erano stati praticati fori di varia grandezza. Bastava soffiare in quella canna magica per modulare soavissimi suoni in grado di addormentare ogni animale.
Claudia avrebbe incantato il grosso serpente sino all’arrivo del futuro sposo che sarebbe giunto con una barca e l’avrebbe portata lontano.
Tutto si realizzò secondo i piani del saggio schiavo: la giovane donna prigioniera di quella grande casa si comportò da vera nobile romana. Combattendo contro la solitudine e la paura, riprodusse con il suo strumento quelle dolci melodie incantatrici che ammaliarono il serpente facendolo precipitare in un sonno profondo; così poté aspettare incolume l’arrivo del futuro sposo.
In seguito la villa, abbandonata dall’imperatore volubile negli interessi ed impegnato in altre imprese, cadde in rovina e con essa i tesori che custodiva. Vi crebbero intorno erbe alte e rovi; le magnifiche stanze divennero squallidi e polverosi labirinti; il tempo la rese così come oggi la vediamo.
Si disse che per lunghi anni un serpente si fosse aggirato inquieto nella zona, forse alla ricerca della remota e struggente melodia di Claudia”.
La grotta del serpente (2)