Pagano Lino Catello (Lino)

Matrimoni, balli e festini…

di Lino Catello Pagano

 

Non si vive di soli ricordi, d’accordo, però nel nostro caso si tratta di ricordi belli di tempi brutti, dunque vale la pena rievocarli.

Che cosa avevamo, cinquant’anni fa?

Discoteche? Noooo..!

Balere?  Noooo..!

Vi domanderete se ci si divertiva, e in che modo; vi assicuro che ci divertivamo, l’isola era ed è sempre la stessa, non si è allungata e non si è allargata, sono soltanto cambiati i tempi; adesso ci sono le Disco, i Pub, ci sono i DJ… noi non avevamo niente di tutto questo, però… avevamo La Giulio Morsello Band, I Duri Band, alle Forna c’era Angelino a Cala Caparra che suonava!

La band di Giulio Morsello era composta dal suddetto Giulio, da Giulio Migliaccio bar Panoramica, da Silverio Piscopo, a volte si aggregava Luciano Gazzotto, alla batteria l’indimenticabile Sam; durante la serata c’era alternanza di musicisti, entrava qualcuno e uscivano altri, erano band polifunzionali; nella band dei Duri, capitanata da Mario Iozzi, si esibivano stabilmente Nino Picicco, Aniello Coppa e Vari&Eventuali: anche qui, la regola era musicisti che andavano e musicisti che venivano. Tra questi, il sottoscritto.

Mi hanno coinvolto, canterò la sera di San Giuseppe a Santa Maria; il palco è situato prima della discesa che porta alla chiesa, quasi sul ponte; io ho provato a cantare con il gruppo, mi inserisco e mi affidano “Bisogna saper perdere” dei Rokes. Mi preparo come è di dovere, la sera della festa ho una fifa da morire, le gambe mi tremano, gli amici aiutano a superare i momenti più difficili: complicandoli! Io ho bisogno di un paio di stivaletti, l’unico che li  ha è Ugo, mio amico fraterno che, generosamente, accetta di scambiare le mie scarpe coi suoi stivaletti, dal tacco adatto alla serata.

Ugo (Ughètt’) Anello

Quando il presentatore, il Professore Migliaccio, mi chiama sul palco, vorrei fuggire: salgo le scale e cado due volte, il Presentatore mi mette a mio agio con un paio di pacche sulle spalle, l’orchestra attacca. Ho paura di dimenticare le parole, sto vivendo i tre minuti più lunghi della mia vita, vado in apnea, canto senza prendere fiato –almeno, non ricordo di averlo fatto- ma è un successo! Applausi, standing ovation, richieste di bis, io voglio strafare e canto per ben tre volte la canzone, sempre la stessa, ormai mio cavallo di battaglia… Adesso le mie corteggiatrici avranno un motivo in più per corrermi dietro; io, per non scontentare nessuna, non svelerò qual è la preferita.

A proposito: non ho una foto di quel San Giuseppe, e spero vivamente che ne arrivi qualcuna a Ponza racconta.

Passato san Giuseppe, passata la festa.  Cosa ci restava, se non  i festini di matrimonio? Io ero sempre in prima linea, accompagnato da Ennio Parisi, Silverio Migliaccio, Ugo – quando Rosa, allora fidanzata, girava gli occhi – Enza Rispoli, Ornella e sua sorella Gioconda, le amiche Liliana e Rosaria, Dirce, mia cugina Clodina – queste ultime, però, si spostavano poco, era raro che arrivassero fino alle Forna. Noi uomini eravamo presenti in tutti i festini, ovviamente auto-invitati; quando arrivavamo, le ragazze ci assalivano e non c’è da stupirsi: eravamo bravi a ballare, carini da morire, avevamo 17-18 anni… sapevamo ballare tutti i generi di balli, appresi da autodidatti, le nostre fan di Le Forna non vedevano l’ora di incontrarci, aspettavano con eccitazione di essere invitate ai matrimoni: Gilda, Fiorella, la figlia di Angelino…

E noi non le deludevamo, arrivavamo con il grande amico Gaetano ‘i Bafarone, con Silverio Migliaccio ‘i Giulio, eravamo una bella banda di scalmanati, con la voglia di divertirci ballando, di scaricare il nervosismo da isola e da isolamento. A volte vi erano tre matrimoni in un colpo solo, uno a Ponza e due alle Forna, la seicento  di Ennio era il nostro mezzo di trasporto, ci caricava in massa, fino a otto, dieci passeggeri e si partiva; si andava prima al festino più lontano, poi ci spostavamo sulla chiesa di Le Forna, da zi’ Arcangelo, controllavamo il terreno per vedere dove ci fossero le ragazze che sapevano ballare; infine, sul tardi, arrivavamo a movimentare l’ambiente dell’Eea. A volte mi toccava cantare il mio pezzo forte, nonché unico del mio repertorio, il mitico “Bisogna saper perdere” con cui mi ero esibito a san Giuseppe; mi concedevo, a patto che suonasse Mario Iozzi.

Quanti dei miei amici con quelle ragazze si sono creati la loro famiglia… anch’io avevo chi mi faceva battere forte il cuore, ma ero osteggiato dalla famiglia.

Siamo all’Eea, a un matrimonio molto affollato; siamo entrati da portoghesi ma, una volta dentro, ci trattano con ogni riguardo.

Ornella ed io siamo impegnati in un tango, il momento è delicato, siamo pronti per il casquè quando la madre della sposa, reggendo un vassoio, si avvicina e, in un italiano alquanto approssimativo:

– Scusato, ‘u vulite ’nu bicchirino?

La nostra concentrazione è al culmine, ma la signora insiste:

– Iamme, giuvino’! …e bevitaville nu bicchirino, accussì abballate meglie!

Come se noi andassimo ai festini per sbevazzare! Noi neanche lo annusiamo, il liquore; ci vuole lucidità, per affrontare certe coreografie!

1 Comment

1 Comments

  1. vincenzo

    14 Gennaio 2013 at 20:04

    C’era una volta una strada
    un buon vento mi portò laggiù
    e se la memoria non m’inganna
    all’angolo ti presentasti tu.
    Quelli erano giorni
    oh si, erano giorni
    al mondo non puoi chiedere di più
    e ballavamo anche senza musica
    nel nostro cuore c’era molto più.

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