segnalato da Sandro Russo
È uscito nel settembre 2012 l’ultimo libro di Arturo Pérez-Reverte, scrittore spagnolo nato nel 1951 a Cartagena, in Spagna. È stato uno dei migliori corrispondenti di guerra, per giornali, radio e televisione fino al 1994; poi (in Bosnia) ha lasciato la professione e ha iniziato a pubblicare best seller storici e di avventura, e romanzi: numerosi e di gran successo, tra cui Il Club Dumas (1997), Il pittore di battaglie (2007), e la saga del capitano Alatriste (vari titoli dal 1996 in poi) portata sullo schermo ne Il destino di un guerriero (2006) da Agustín Díaz Yanes, con Viggo Mortensen.
Il suo ultimo libro è questo Le barche si perdono a terra, (352 pag.; Marco Tropea Ed.) che raccoglie testi e articoli per la maggior parte provenienti dalla sua collaborazione con XL Semanal, la rivista spagnola di attualità, divulgazione e stile di vita, nella colonna ‘Patente di corsa’.
Del libro, appena comprato e in attesa di una recensione più personale, riporto commenti e spunti colti qua e là, sfogliando tra le pagine…
“È un’antica e bruciante passione, quella che Arturo Pérez-Reverte nutre per il mare: da sempre ne studia la storia, la letteratura e le leggende, oltre che percorrerlo come esperto navigatore. Questo volume raccoglie novantasei testi dello scrittore spagnolo sul tema. Si tratta di un’affascinante e multiforme indagine fra gli abissi, con una chiara predilezione per l’amato Mediterraneo: c’è il sangue che scorre dagli ombrinali, ci sono Omero, Stevenson e Mac Orlan, Conrad, Melville e O’Brian, e la meteorologia, le tempeste perfette, la difesa del tonno e delle balene, le avventure con le lance dei guardacoste. Il mare attrae irresistibilmente a sé Pérez-Reverte per la sua bellezza indomita e anche per la sua crudeltà: per le avventure che vi nascono, per gli eroi, i criminali e i fantasmi che lo percorrono, romantici e coraggiosi. Ma nutre anche la vena più autenticamente iconoclasta e polemica dello scrittore. Il lettore si sente chiamato a imbarcarsi con Reverte e i Fratelli della costa con la sciabola d’abbordaggio fra i denti, una cima in mano e la bandiera con il teschio e le tibie incrociate e può diventare marinaio e corsaro, ammutinato del Bounty, ramponiere del Pequod, rematore del re di Itaca e, suo malgrado, testimone della recente tragedia della Costa Concordia”.
[dalla seconda di copertina]
“(…) Mi sento un po’ un impostore, lo confesso, nell’abbozzare queste righe che anticipano un lupo di mare. A differenza di Arturo non sono un marinaio. Anzi, temo il mare. Mi pare di sentire la voce di Arturo: “Non sminuirti Jacinto, solo gli imbecilli non temono il mare”. È vero, Arturo, ma io non lo temo come lo temono i marinai, come lo temi tu. Lo temo molto solo a vederlo; lo temo per la sua irrevocabile immensità, per la sua inconsistenza traditrice, per la sua insondabile profondità. Lo temo perché non vi trovo niente cui aggrapparmi, nessuna certezza e, soprattutto, nessuna pietà (per me). Lo temo perché è così simile alla vita. (…)
(…) Eppure paradossalmente, amo il mare. Lo amo come idea e come territorio solcato da altri. Come letteratura. Sono per così dire, un marinaio di carta. Di quelli che navigano per interposta persona: chiamatemi Ismahel o Joshua (Slocum), o due volte Jim – Tuan e Hawkins – o due volte Jack – Aubrey e Sparrow – o, già che ci siamo, due volte Arturo (Gordon Pym e quello di cui ci stiamo occupando). O Coy. (…)
(…) Voltate pagina e godetevi il vento che soffia tra le sartie, sotto le stelle”.
[Dall’introduzione di Jacinto Antòn]
“Questo libro si può riassumere in un’idea: siamo fatti della stessa materia, dello stesso sale e della stessa acqua di cui è fatto questo mare stanco, sul quale navigano i nostri sogni, le nostre paure, le nostre guerre e le nostre mercanzie, le nostre parole e la nostra memoria, dal tempo in cui un bardo cieco chiamato Omero inventò gli eroi… Senza uomini liberi e senza barche non esisterebbe la letteratura”.
[Da: El País, come riportato in quarta di copertina]