di Eduardo Ferri
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Punto di riferimento fondamentale ed esclusivo, la famiglia ha sempre rappresentato il più tenace depositario delle tradizioni. La società meridionale è una società familistica, ma è anche una società politicamente chiusa, cioè ostile ad ogni potere proveniente dall’esterno, vissuta nello scetticismo e nella paura che l’hanno portata a rifugiarsi nella magia e nella superstizione.
Ernesto De Martino, nel suo “Sud e Magia”, fa risalire l’origine delle varie forme di fascinazione e di magia, fino alla più moderna “jettatura”, al senso di “insicurezza della vita quotidiana, oltre che all’enorme potenza del negativo e alla carenza di prospettive di azione realisticamente orientate per fronteggiare i momenti critici dell’esistenza…”.
La fine della guerra in Italia non ha significato soltanto la fine di un regime autoritario, ma anche – come afferma Ernesto De Martino – la irruzione nella storia delle classi subalterne e, più esplicitamente, delle contadinanze del Sud impegnate nella battaglia dell’occupazione delle terre.
Si “scopriva” l’esistenza di un’altra Italia: quella descritta da Carlo Levi in “Cristo si è fermato a Eboli”. Se la problematica etnologica è stata immessa, su queste spinte, nel quadro culturale italiano da Ernesto De Martino, il momento teorico determinante è certamente rappresentato dalla pubblicazione, nel 1950, delle “Osservazioni sul folklore” che Antonio Gramsci aveva scritto in carcere vent’anni prima. Secondo l’impostazione marxista di Gramsci, veniva ristabilito il legame tra fatti culturali e fatti sociali che lo storicismo idealistico aveva recisamente negato.
Il mondo che vive “oltre Eboli” è apparso alla etnologia e al folklore borghese – osserva De Martino – come astorico, ovvero come storia possibile, ma che allora non si era affacciato alla memoria dello storiografo. Tale atteggiamento prevalente della cultura ufficiale di fronte alle forme culturali del mondo popolare subalterno è entrato in crisi insieme alla società di cui era espressione.
Il discorso sulla cultura subalterna introduce, naturalmente, a quello sul folklore.
Luigi Lombardi Satriani nelle sue opere, partendo dalle osservazioni di Gramsci, porta a conseguenze più radicali il discorso sul folklore che definisce “cultura di contestazione”. Il folklore esiste in quanto esiste una cultura al potere che lo determina, relegando masse di individui a modi di vita eticamente ineccepibili e assume nei confronti di tale cultura al potere una posizione di cultura “diversa”. Nella cultura delle classi subalterne, infatti, continuano a vivere e ad avere una funzione conservatrice valori e temi che altre classi hanno ormai “superato”: si pone così il problema del “ritardo culturale” delle classi subalterne che è un riflesso del loro ritardo economico.
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In questo contesto, diventa legittima la domanda: è possibile, è auspicabile un cambiamento? Anche la cultura si evolve: non esiste cultura tanto chiusa da non subire, nel corso del tempo, trasformazioni e mutamenti. Processi interni e influssi esterni alterano o sviluppano alcuni tratti culturali che, a loro volta, trascinano nel loro dinamismo tutta intera la cultura.
Non si può dire, allora, che nulla sia cambiato in questi ultimi anni all’interno della realtà meridionale. Bisogna anche dire che non sono mancati i segni premonitori di altri sviluppi. Il binomio della trasformazione e del cambiamento globale di tutto il Meridione, da sempre oggetto di programmazione di interventi, è sempre stato costituito dall’agricoltura e dall’industria. L’agricoltura e l’industria sono state ritenute i canali privilegiati per un rilancio economico e sociale-politico del Mezzogiorno d’Italia, ma ancora oggi segnano il passo.
Le cause dello sconvolgimento del mondo agricolo, a partire dagli anni ’50, possono individuarsi essenzialmente nella rapida crescita dell’industria e dell’intera economia che ne è conseguita; nell’intollerabile divario tra redditi agricoli ed extra-agricoli; nell’introduzione tardiva e sconvolgente delle nuove tecnologie agricole, legate all’industria e simboleggiate dalla crescente meccanizzazione.
Il distacco tra la polpa e l’osso – per dirla con una espressione del prof. Manlio Rossi Doria, in voga negli anni ’70, ossia tra le terre di pianura o altrimenti dotate di buone risorse agricole e le terre dell’interno, collinari e montane – era enormemente cresciuto già alla fine degli anni ’70. E Rossi Doria così scriveva: “Allo squilibrio tra zone di “polpa” e di “osso”, ossia di pianura e interne, va posto energico rimedio con una specifica politica per le zone interne, capace di combinare riordinamento fondiario, riconversione produttiva, attività extra-agricole, difesa del suolo e assetto del territorio e, capace, principalmente, di riportare in queste zone forze di lavoro giovani, sicure di trovarvi un civile e durevole avvenire”. Questo si sarebbe dovuto ottenere mutando innanzitutto il rapporto tra agricoltura e industria a vantaggio della prima, perché – va ricordato – lo sviluppo industriale è avvenuto, nel secolo scorso, con la mano d’opera, gli operai, prelevati dalle classi e dalle zone agricole. Nel campo dell’industria, dobbiamo constatarlo con amarezza, lo sviluppo è stato solo apparente, mentre nel campo dell’agricoltura, insieme all’abbandono crescente delle campagne, l’effetto “buono”, prodotto dalle politiche agricole, è stata l’emigrazione.
[A dorso d’asino, di Eduardo Ferri. Prefazione (2) – Continua]