di Francesco De Luca
L’assunto che vado ad argomentare è concentrato nel titolo: i Ponzesi è ora che dismettano la condizione di Coloni e assumano quella di Cittadini pienamente responsabili.
La base del ragionamento porta a delineare in modo socio-politico la figura del Colono.
Ebbene i nostri avi furono invogliati dalla Monarchia borbonica a prendere possesso del territorio di Ponza. Esso fu diviso in particelle e fu permesso loro di prendere dimora nelle grotte, di edificarvi case, di rendere fertile il terreno e goderne dei frutti.
La loro condizione civica era di obbedire alle leggi del reame ed essere ossequiosi alle direttive che da Napoli venivano impartite tramite i funzionari statali affinché la vita sociale progredisse nell’ordine, nell’armonia, nella produttività. Fungeva da puntello obbligato a tale ordinamento la legge morale piantata sui comandamenti e sulle pratiche religiose del cattolicesimo.
Il Colono fu messo nella condizione di operare affinché la sua vita e quella della sua famiglia fosse sostenuta dai frutti del lavoro. In ciò il reame borbonico vedeva anche un interesse statale ( generale ) e della casa regnante ( in particolare ).
Qualora l’esistenza dei coloni abbisognasse di strutture civili per esprimersi compiutamente il re provvedeva a rispondere a tali necessità. Furono costruiti il cimitero, la chiesa, il porto, le strade, gli edifici per ospitare i funzionari, quelli per permettere alle attività produttive di accompagnare il progresso e l’espandersi delle espressioni economiche e popolari.
La dimensione civica del Colono, tanto per radicalizzare il modello, era assorbita a perpetuare la sua esistenza e,così facendo, quella della comunità, in ciò ottemperando ai desiderata del reame.
Fortemente e quasi ossessivamente supino al suo lavoro ( fonte di vita ), rispettoso delle leggi e dei dettami cristiani. Tutto, sinteticamente qui. Una r e s p o n s a b i I i t à relegata nel privato, esclusivamente.
Quando la terra non bastò più alla sussistenza si cercò nella pesca un’alternativa vitale. Ciò fu ampiamente permesso e attuato, così come il mestiere di marinaio proliferò nella società isolana.
Essa, quando comprese di dover intraprendere un’altra via per reggere la necessità che la sussistenza imponeva, intraprese la strada dell’emigrazione.
Una emigrazione verso località italiane dove fermarsi ed espandersi in comunità, come è accaduto in Sardegna, all’isola d’Elba. Oppure un’ emigrazione in terra straniera, e anche lì mettere radici ed espandersi in comunità, come negli Stati Uniti, in Argentina, in Canada.
Ciò che voglio sottolineare è che la prospettiva di vita dei Ponzesi, dagli inizi della colonizzazione sino ad oggi non ha abbandonato questo taglio utilitaristico, individualistico, teso a salvaguardare l’esistenza sua e quella della sua famiglia in un lembo di terra, conteso da tutti, pronti a sottrarglielo .
Questo spirito è stato evidente da subito a tutti coloro che ne hanno fatto oggetto di riflessione. Questo il giudizio del Montaruli nel 1811, così il Mattej nel 1848, così il Tricoli nel 1864, così il Corvisieri negli anni ’90. Così ci giudichiamo noi, attuali ponzesi residenti. E consideriamo la permanenza a Ponza un male ineliminabile tant’ è che si invidia chi riesce a star lontano dall’isola e si dispera chi è costretto a permanere. Con una distinzione che va rimarcata: la disperazione riguarda il fatto che non ci si possa allontanare nel periodo di magra economica ( inverno ). Così come l’invidia si appunta su chi, allorquando la macchina economico-turistica macina guadagni, ritorna dal domicilio invernale e pontifica, si arricchisce.
La qual cosa immette nel nostro ragionamento un elemento nuovo consistente. E cioè che l’isola non è più, come per i coloni, fonte esclusiva di sussistenza, è divenuta fonte di arricchimento. Con la conseguenza che la società dei coloni, equilibrata nelle condizioni epperciò solidale, si è sfatta.Portandosi dietro nel crollo quelle strutture che faticosamente aveva innalzato a corredo vivace della striminzita e arida vita istituzionale. La Chiesa infatti aveva organizzato forme associative adeguate alle età ( azione cattolica, congreghe ); la scuola aveva superato la dimensione dell’obbligatorietà e tendeva a migliorare le sue prestazioni ( la Scuola dell’Infanzia, il Tempo Pieno, la Scuola Superiore ); le associazioni sportive si organizzavano insieme ad altre forme ricreative : cinema, teatro, bar, sale da ballo; finanche i Partiti politici esprimevano forme vivaci di vita associativa.
Questo fervore civico della società colonica è durato poco, o forse troppo poco, per sviluppare una dimensione più adulta di cittadino.
Il turismo ha commesso l’infanticidio. Di tutto quello che ho mensionato nei righi precedenti non esiste nulla: nessuna forma partecipata di coralità in chiesa, nessuna espressione vivida dalla Scuola, nessuna espressione di vivacità sociale. Solo e soltanto funzionalità in direzione turistica. Nulla che abbia validità esclusiva per la comunità residente.
Questo quadro purtroppo deve essere ulteriormente corretto, perché l’animosità filoturistica sta pericolosamente implodendo. I divieti istituzionali che si stanno abbattendo su Ponza sono tali che limiteranno di molto l’afflusso dei villeggianti, e impediranno ai residenti di ipotizzare forme di convivenza soddisfacenti.
Lungi dal fare catastrofismo ma la pericolosità e i rischi geologici dell’ambiente sono tali che appare impedita alla comunità di guardare al futuro economico con serenità. Il che impedirà una programmazione della vita isolana ( invernale ) soddisfacente.
A meno che non si diventi cittadini responsabili. Non coloni che arraffano, che operano alla meno peggio, che si ritengono tanto lontani dal potere centrale per fare il loro comodo.
Il territorio dell’isola NON permette uno sfruttamento sregolato. L’opinione pubblica nazionale non considera più Ponza e i Ponzesi soggetti tanto diversi da permettere loro tutto. Al contrario ci imputa di essere stati dissennati, menefreghisti, e ci indaga e ci incolpa.
Quale reazione occorre avere ? Io dico di addossarci la responsabilità di vivere in un posto che ha sue proprie caratteristiche. Occorre valorizzare e potenziare le caratteristiche qualificanti; tenere sotto controllo quelle a rischio; deligittimare quelle caratteristiche che ci propongono all’opinione pubblica come inadatti ( caccia fuori stagione, pesca fraudolenta , abusivismo ).
Dobbiamo espandere la r e s p o n s a b i l i t à, farla diventare civica. Non più rinserrata nel privato, nel familiare, ma aprirla al volontariato, al politico, al culturale.
Sono parole, mi si obietterà. Qui c’è il PAI che ci obbliga materialmente a pensare ad una sistemazione in terraferma perché la casa è a rischio geologico e tu perori un diverso impegno civico.
Sono due fattori che implementano azioni in differenti livelli: uno pratico e uno mentale.
Quest’estate non saprò a chi affittare le barche perché quasi tutte le coste sono interdette e tu sproni ad un diverso atteggiamento mentale. Le cose non possono quadrare.
E invece io sono fiducioso che soltanto se siamo corazzati con la consapevolezza di quanto sta avvenendo potremo insieme trovare una soluzione. Qui i n s i e m e significa essere responsabili delle cause e degli effetti delle nostre azioni.