di Tina Mazzella
Quando il piroscafo approdò nel porticciolo dell’isola, era sera inoltrata; le strade erano deserte e silenziose e l’aria odorava di pioggia e di terra. Farfariello sbarcò in fretta e di corsa prese la strada che conduceva a casa. Temeva di essere notato da qualche marinaio, paventava domande inopportune.
In pochi minuti raggiunse i vecchi, cari accoglienti gradini. Sedette immobile, mentre il cuore batteva forte come impazzito; anche le gambe tremavano; cercò di calmarsi, di apparire più sicuro. Tentò di ascoltare i rumori provenienti dalla casa:
a quell’ora erano tutti riuniti intorno al tavolo della cucina per la cena. Gli parve di udire un tintinnio di posate, un rumore di piatti, percepì delle voci, dapprima indistinte, poi sempre più chiare: erano Veruccio e Giuseppe che discutevano animatamente! Allora si alzò di scatto ed avvicinandosi all’uscio della cucina, girò la maniglia ed entrò.
Fu per tutti un’apparizione:
ognuno ammutolì guardando verso la porta. In un solo istante gli piovvero addosso gli occhi sbarrati dell’intera famiglia che lo interrogavano;
egli avanzò tacendo a sua volta.
Improvvisamente le domande incalzanti della mamma ruppero il silenzio: Prima di rispondere, Farfariello guardò tutti negli occhi:
“No, no, nessuno mi ha cacciato. Stavo male in collegio; nessuno mi ha picchiato, ma avevo sempre mal di pancia e stavo male davvero! Ecco perché sono qui. Non voglio più tornarci. Farò il bravo, imparerò un mestiere, ma dai Salesiani non voglio più mettere piede”.
Il piatto di polenta fumante innaffiato dal vino cotto che la mamma si era affrettata a porre al suo posto in tavola lo rincuorò; soprattutto lo rese felice la successiva decisione dei genitori di tenerlo a casa. Avrebbe aiutato senz’altro il papà nel lavoro dei campi, sarebbe diventato un buon contadino e la vigilanza paterna avrebbe giovato a quello zuccone matricolato.
La fuga di Farfariello fece storia tra gli amici e ne conferì maggiore credito alla figura; tutti ne festeggiarono il ritorno e la vita prese a scorrere lieta come in passato. Dopo le ore di lavoro l’allegra brigata si ricomponeva; si giocava a carte, si facevano scherzi, si raccontavano storie, si cantava al suono di una chitarra e di una fisarmonica e, nei giorni di festa, si ballava in casa di parenti o di amici. Farfariello era sempre lo stesso, sebbene in alcune circostanze apparisse più giudizioso e meno irruento. Il padre lo svegliava all’alba e insieme andavano nella Cavata, al Covone Del Lauro, a Capo Bianco ed al Pagliaro. Il lavoro era duro e faticoso, ma il giovane, pur rimpiangendo talvolta il caldo ovattato della vita scolastica, lo eseguiva scrupolosamente. Aveva imparato a zappare la terra per affondarvi il seme, a potare con precisione gli alberi, ad osservare ed a proteggere le piante dall’assalto dei parassiti.
Quando rincasava, era stanco ed affamato ma contento; si sentiva libero tra i campi: poteva muoversi, saltare, arrampicarsi e se lo voleva, anche cantare. Non lo facevano gli uccelli?
Spensierati e lieti trascorsero gli anni dell’adolescenza, che forse potevano apparire anche un po’ monotoni e privi di reali attrattive, incredibilmente circoscritti tra un lembo di terra, il cielo ed il mare.
Farfariello si sentì fiero ed eccitato quando un giorno gli giunse la cartolina che gli ordinava di raggiungere la città di Messina per prestare il servizio militare. Finalmente avrebbe viaggiato, sarebbe salito su un treno che, a sua volta, si sarebbe imbarcato su un traghetto,molto più grande e veloce del vapore fumoso e puzzolente che collegava la sua striscia di terra con il continente. Avrebbe visitato nuove città, visto negozi, sentito dialetti diversi; ma soprattutto avrebbe stretto nuove amicizie e sarebbe stato trattato da vero uomo. A casa era considerato sempre un po’ bambino e buontempone, forse perché lavorava alle dipendenze del padre e questi, pur amandolo, in realtà si rifiutava di ammetterne la crescita e la maturazione.
Giunto a Messina, Farfariello vide però infrangersi ogni speranza: trovava la vita del soldato inutile ed oziosa; non poteva approvare la lunga serie di esercizi quotidiani che mai avrebbero fatto di lui l’uomo che si era prefigurato. Le marce e gli obblighi della caserma lo delusero; né le sospirate amicizie riuscirono a soddisfare l’ansia di conoscere, che si rivelava più che mai urgente.
A questa serie di delusioni si aggiunse un giorno “il gran regalo” del servizio militare, che arrivò inatteso e crudele.
Fu durante un’esercitazione: si avvertì un rumore assordante nelle immediate vicinanze. Si era trattato dello scoppio improvviso di una mina, che con il suo fragore aveva provocato una lesione incurabile ai timpani del soldato, riducendone la capacità di percepire suoni e rumori in modo pressoché totale.
Presto egli comprese che sarebbe stata impossibile ogni guarigione; lesse la sua condanna sul volto imbarazzato dei medici e nelle parole di circostanza dei superiori. Era diventato sordo; non era facile accettare una simile sentenza a vent’anni. Quella inaspettata situazione lo umiliava spogliandolo della baldanza e della volontà di affermazione tipiche della giovane età.
L’idea di riprendere al paese l’attività e la vita di un tempo lo turbava: come lo avrebbero considerato gli amici? Lo avrebbero accettato o si sarebbero presi gioco di lui? E le ragazze? Che cosa avrebbero pensato di lui le ragazze, quando non avesse colto con la solita fulminea perspicacia le loro battute? E che cosa ne sarebbe stato del suo ruolo di capo, che deteneva a buon diritto sin dall’infanzia?
Ritornato a casa, dagli inconsueti e prolungati silenzi gli amici avvertirono il suo disagio. Lo trovavano un po’ più chiuso e meno disponibile a raccontare storie o a progettare scherzi. Lasciava parlare gli altri e di fronte alle ragazze era insolitamente timido ed impacciato. Piuttosto che con loro, gli pareva di trovarsi meglio in compagnia dei maschi, dai quali si sentiva più sostenuto e forse maggiormente compreso.
Ormai era certo che non avrebbe mai trovato una donna tutta per sé; quelle del suo ambiente erano molto esigenti e gli avrebbero preferito un giovane sano, con cui fosse stato più agevole comunicare.
Spinto da questa e da altre ragioni non ancora chiare neppure a se stesso, Farfariello provò un forte desiderio di emigrare per costruirsi altrove una vita diversa. Gli sembrava che da anonimo cittadino, in una località assolutamente sconosciuta, tutto gli sarebbe stato meno doloroso; tra gente estranea avrebbe potuto lottare e vincere più facilmente come avevano fatto tanti amici, anche meno intraprendenti di lui.
Tina Mazzella
(Continua)