di Tina Mazzella
Dal cantuccio della penitenza, giungevano allora ben distinte alle orecchie di tutti le rime composte in lode del troppo zelante educatore:
“Il maestro, andando in guerra, si nascose sotto terra;
scoppi e rombo di cannone lo impaurivano come un piccione;
viva, viva Salamone, che codardo ed imbroglione, difendeva la sua pelle dalle palle del cannone”.
Più della inguaribile impertinenza del ragazzo, la sfiducia che costui nutriva nell’amor patrio del maestro ferì profondamente l’anziano docente, il quale alla fine dell’anno scolastico non riuscì a dimenticare quei versi scanzonati, quando decretò la bocciatura di Farfariello. Infine, come Dio volle, quell’allievo scomodo ed indesiderato concluse il ciclo delle elementari.
Per consentirgli di frequentare le medie, fu inviato dai genitori nel collegio dei Salesiani, in una città di mare abbastanza distante dall’isola natia.
Nel vedere l’edificio dall’esterno, il giovane convittore ebbe un brivido: il muro di cinta del giardino gli apparve come quello di una prigione. Non gli piacque neppure l’ampio parco con i lunghi viali alberati e profumato di fiori colorati.
Gli stessi Padri che si occupavano del buon funzionamento della scuola e del convitto avevano un aspetto così austero e grigio da fargli rimpiangere l’antico maestro Salamone.
Anche i compagni gli sembravano troppo seri e studiosi, molto più vecchi della loro età; diligenti e ligi com’erano, di certo non ne avrebbero apprezzato le trasgressioni e gli scherzi; non ne conoscevano neppure il nome di adozione e, proprio per questo, lo facevano sentire completamente spaesato, addirittura estraneo a se stesso, chiamandolo con il suo nome ufficiale, ai suoi occhi freddo e insignificante.
Il cibo dell’istituto era di qualità scadente ed insufficiente e gli faceva rimpiangere le piratesche e fruttuose incursioni nella dispensa materna, quando si dava all’assalto del barattolo dello zucchero vuotato a cucchiaiate, salvo poi addossarne la responsabilità ai topi ogni qualvolta se ne lamentava la sparizione.
A tavola poi bisognava consumare i pasti in religioso silenzio, pensando con gratitudine, secondo quanto affermava il regolamento, alla provvidenziale provenienza di ogni boccone: era severamente vietato ridere o scambiare occhiate e parole a fior di labbra con i vicini.
Ugualmente lunghe e noiose erano le ore di studio, che richiedevano la massima concentrazione e serietà. Immobile nel banco come tutti i coetanei, Farfariello ricordava le corse nelle strade, le continue scalate agli alberi ed alle rocce più elevate, i liberi salti da instancabile grillo, i sibili acuti di serpente, gli animali del cortile così perseguitati ed al tempo stesso così amati.
Al richiamo di queste immagini lontane, provava una struggente nostalgia, mai avvertita prima e si vergognava di questo nuovo sentimento tanto poco virile che lo turbava. A sera, in dormitorio avrebbe potuto finalmente scatenare la propria vivacità nei giochi collettivi, ma, sempre pronto e guardingo, l’istitutore frenava sul nascere ogni esplosione di esuberanza giovanile.
Le frequenti ore di preghiera trascorse obbligatoriamente in chiesa e le messe mattutine lo irritavano. Si chiedeva costantemente quanto tempo avrebbe dovuto trascorrere in un luogo così cupo. Consigliava a se stesso con insolita saggezza di pazientare, di attendere sino alle prossime vacanze.
Allora contava i giorni e si sentiva sconfitto, sembrandogli innumerevoli ed interminabili. Gli pareva impossibile attendere il Natale per convincere i genitori a ritirarlo dal collegio. Di sicuro poi costoro non ne avrebbero ascoltato le lamentele, non avrebbero neppure preso in considerazione le sue esigenze di ragazzo libero e spontaneo. Non gli avevano seguitato a ripetere d’altronde che a lui sarebbero stati indispensabili anni ed anni di “serraglio” per ridurre quella testa matta all’obbedienza e alla ragione?
Per questo, dopo ipotesi, valutazioni, calcoli, prese la decisione. Contò ripetutamente i pochi soldi che possedeva e, quando ebbe la certezza che gli sarebbero stati sufficienti a pagare il costo del viaggio di ritorno a casa, ideò la fuga. Non gli fu difficile realizzarla, perché capitava che il cancello dell’istituto rimanesse talvolta incustodito. In fretta, Si allontanò con passo sicuro senza voltarsi indietro, dirigendosi senz’altro al molo.
Il piroscafo era ancorato nel porto e sembrava attenderlo. Quando lo accolse nell’aria viziata di nafta e gli offrì una delle panche di legno di terza classe per farlo sedere, gli comunicò un senso di libertà ed insieme di protezione.
Tuttavia il batticuore non cessò: temendo di essere ricercato e riacciuffato, Farfariello scrutava attentamente i viaggiatori; poi, quando la sirena con il fischio lugubre e prolungato diede il segnale della partenza, emise un sospiro di sollievo in cui poté parzialmente scaricare la tensione che lo opprimeva.
Intanto, durante il viaggio progettava la sua improvvisa comparsa a casa, immaginando quale ne sarebbe stata l’accoglienza. Tra sé ripeteva, modificandone ogni volta le espressioni o il contenuto, le frasi che avrebbe proferito varcando la soglia. Alla fine decise che avrebbe improvvisato: odiava i discorsi studiati, che fondamentalmente avrebbero potuto rivelarsi meno efficaci di una recita immediata e spontanea.
Con un misto di curiosità e soddisfazione, sorrideva immaginando lo stupore che si sarebbe stampato sui volti dei fratelli e degli amici e su quelli estremamente preoccupati dei genitori. La sua impresa lo eccitava e lo induceva a chiedere a se stesso se non stesse sognando, se non si trattasse solo di un racconto letto sui polverosi libri di scuola.
Poi un pensiero molesto sbarrò il corso alla fantasia galoppante: e se il padre, indignato, lo avesse riaccompagnato in collegio rendendo vana e ridicola la fuga?
Con forza scacciò questa idea, che per un istante lo turbò e decise che ciò non sarebbe accaduto: lui avrebbe pianto, supplicato, inveito, inventato, ma in quel tetro penitenziario non avrebbe più fatto ritorno.
Tina Mazzella
(Continua)