Traduzione di Silverio Lamonica
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Niccolò Piccinino li incontrò a dieci miglia dalla città porgendo loro i saluti rassicuranti del Duca: Alfonso non avrebbe dovuto sentirsi un prigioniero; il duca e tutte le sue prerogative gli appartenevano, e lui poteva disporne secondo il suo volere. Tra una folla di curiosi ed eccitati spettatori ed accompagnati da tutta la nobiltà di Milano, entrarono nel castello dove la Duchessa Maria, figlia del Duca di Savoia, si inchinò omaggiando il re. Alfonso avrebbe voluto fermarsi, ma Piccinino insistette nel portarlo in un palazzo, preparato apposta per lui. Quando due giorni dopo traslocò in appartamenti più confortevoli, nello stesso palazzo ducale, il suo status divenne più prestigioso di un ospite onorato, libero di ricevere messaggeri e di divertirsi ad andare a caccia, a suo piacimento, nel parco. Ad un araldo, inviato dalla Regina Maria a chiedere notizie di suo marito, ordinò: “Di’ a mia moglie che sono felice, mi sento a casa mia”.
Il 26 settembre la compagnia reale fu raggiunta da Juan ed il segretario Oleina, portati da Genova, per ordine del Duca, con cinque rappresentanti della Repubblica, perché Filippo Maria aveva deciso che i genovesi avrebbero dovuto partecipare ai negoziati con il re.
In tutto questo tempo Alfonso non pose affatto il suo sguardo su colui che lo aveva catturato, sebbene il Duca lo avesse osservato segretamente.
Filippo Maria Visconti (1392–1447) fu l’ultimo Duca visconteo a reggere il Ducato di Milano
Filippo Maria aspettò che gli astrologi calcolassero il giorno più propizio per incontrarlo. Nella sua struttura storpia e obesa, il signore di Milano ospitava una mente acuta e astuta che lo rese un maestro di finzione e di falsa apparenza. Nell’aspetto faceva una piccola concessione all’abbigliamento elegante o alle decorazioni; nei modi era definito garbato, pronto al perdono, indulgente verso i suoi soldati e la gente comune, invece era arrogante verso i comandanti che percepivano la sua paga. Un uomo sposato che scioglieva le briglie alle sue inclinazioni omosessuali. Se per l’amore della solitudine o per la paura del pericolo (i tuoni lo atterrivano), solo pochi amici scelti erano ammessi a fargli compagnia. Agli ambasciatori era spesso vietato l’ingresso (a palazzo) e perfino Sigismondo, quando passò per Milano, non ebbe la possibilità di ottenere udienza. Eppure quella figura solitaria, inquieta, affamata di potere che, ben diversamente da Alfonso, mai fu presente su un campo di battaglia, tenne l’Italia per tre decadi nella paura e nello scompiglio.
L’incontro ebbe luogo nel momento astrologico corretto (61). Filippo Maria, che anticipatamente pregò Alfonso di non fare alcun riferimento allo “sfortunato” incidente di Ponza, piegò le ginocchia di fronte ad un re di cinque anni più giovane, quindi cominciò a parlare affabilmente di caccia e di altri piaceri principeschi.
Nota 61 – De Marinis (“La Liberazione”, 101) cita la testimonianza di un milanese dell’epoca, un certo Donato Bosso, secondo il quale l’incontro avvenne alle 11 p.m. del 15 settembre. Anche Bosso era male informato sul giorno, oppure la sua testimonianza potrebbe essere stata manipolata nel corso della trasmissione (da un’epoca all’altra).
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Quindi la discussione portò ad un risultato che sbalordì tutta l’Europa: un’alleanza che mirava ad una congiunta egemonia sull’Italia. Molto si fece (leva) sul fascino e la persuasione di Alfonso e sulla magnanimità di Filippo Maria per chiarire la conclusione (62). Comunque, bisogna ricordare che entrambi avevano sempre riconosciuto che i loro interessi erano ampiamente complementari. Genova aveva dato risalto alle differenze fra loro, specialmente a proposito della Corsica, ma entrambi volevano mantenere la Repubblica in uno stato di soggezione. Invero in questo periodo a Genova crebbe la convinzione che Filippo Maria avesse a lungo progettato di distruggerle la flotta, perché Ponza gli aveva dato la prova di un ribaltamento della situazione non desiderato. Senza andare troppo lontano, nessuno fa fatica a capire che il re ed il duca avrebbero scoperto un interesse comune nel controllare il nazionalismo esultante, che mosse maestosamente Genova sulla rotta di Ponza. Il colpo da maestro di Alfonso fu di persuadere Filippo Maria che, permettendo ai genovesi di essere i difensori della causa degli angioini, rischiava di riportare a Genova i francesi, vecchi alleati di Firenze, mettendo così in pericolo la sua supremazia in Lombardia. Al contrario un Napoli aragonese, non avrebbe rappresentato una minaccia alle sue mire nel nord Italia. Il Duca di Savoia, suocero di Filippo Maria, aveva già espresso un consiglio analogo:
Se mio figlio potrà giungere ad un accordo con il re, ne seguiranno effetti meravigliosi. In primo luogo avrà i mezzi di dominare i genovesi che fino ad ora non ha mai posseduto. Inoltre, con l’unione di tutta la nobiltà italiana, mio figlio non avrà più a lungo alcun timore dei veneziani e dei fiorentini ed avrà i mezzi di preservare il suo stato che non ha mai avuto veramente fino ad oggi. (63 )
La forza di quel ragionamento provocò quasi un brusco cambiamento di direzione nella condotta politica del Duca. Solo pochi giorni prima, il 21 settembre, aveva firmato un trattato di alleanza con gli Angiò che destinava Renato al trono di Napoli. L’8 ottobre concluse con Alfonso, Giovanni ed Enrico dei patti di un tenore completamente opposto. Uno, un atto pubblico, ammetteva che “ per sua mera liberalità e munificenza”, e con “grande difficoltà ed oneri” aveva “liberato” i principi aragonesi dalle mani dei genovesi e adesso dava loro la libertà “anche se in effetti essi l’avessero già”.
Nota 62 – Si potrebbe ricordare che Alfonso aveva persuaso, almeno un anno prima, i suoi fratelli che la conquista di Napoli, da parte sua, avrebbe favorito il loro interesse. Aveva sancito che Filippo Maria fosse “un signore et re naturale” (Duprè- Theseider, La politica italiana, 83).
Nota 63 – la medesima frase nell’italiano del ‘400 (Ametller Vinyas, Alfonso V, II 9 n. I).
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Al ritorno i fratelli si accinsero a venire in aiuto del re dovunque e comunque si sarebbe trovato. La vera natura del loro patto, racchiuso in un trattato segreto che obbligava Filippo Maria a sostenere Alfonso “in ogni modo possibile” nella conquista di Napoli, mentre il re prometteva si essere al servizio di Milano contro qualsiasi potenza inclusi il papato e la famiglia Sforza. Inoltre Alfonso si accinse a restituire Portovenere e Lerici senza pagamento e scusare Filippo Maria per ogni impresa passata in riferimento alla Corsica. Attraverso il centro d’Italia tracciarono una linea di demarcazione che separava le rispettive sfere d’influenza (64). Alla luce di questo secondo trattato, la mancanza del Duca di richiedere un riscatto – un’omissione che stupì i suoi contemporanei – non dovrebbe suscitare alcuna sorpresa. Sarebbe stato un nonsenso azzoppare un’alleanza che perseguiva i medesimi obiettivi. Le lettere di cambio che Alfonso cominciò immediatamente ad indirizzare ai funzionari in tutti i suoi stati, derivavano dalle somme prese a prestito a Milano per le spese della famiglia e non aveva nulla a che vedere col riscatto. Al contrario, Filippo Maria gli prestò 30.000 ducati durante i tre mesi trascorsi a Milano. (B. Ruano, “La liberacion)
Giovanni, il Principe di Taranto, e il Duca di Sessa, tutti lasciarono Milano tre giorni dopo la firma dei trattati, che mettevano ancora una volta in moto la macchina bellica aragonese. Giovanni si accingeva a ritornare in Spagna, a riprendere la guida del governo e ad organizzare il supporto ai suoi fratelli in Italia; nella circostanza, per imbarcarsi per Barcellona, dovette attendere a Genova fino al 1° dicembre. Il Principe fece prima rotta per Palermo portando messaggi che ordinavano a Pedro di condurre dalla Lombardia il re con le sue galee. Quindi in compagnia del Duca di Sessa, si affrettò a visitare la difesa dei suoi stati in terraferma. Alfonso ed Enrico rimasero a Milano, intrattenuti piacevolmente con attività sportive e feste, mentre negoziavano il rilascio dei prigionieri a Genova ed organizzavano con Filippo Maria le forze navali e militari necessarie per conquistare Napoli. Essi si accordarono che da fine novembre il figlio di Piccinino, Francesco, avrebbe comandato le truppe arruolate a Milano in nome del re, e che Genova avrebbe fornito sei navi per trasportarle. Filippo Maria anticipava i fondi necessari a copertura delle lettere di cambio dirette in Spagna.
Una volta stabilito tutto, nel pieno soddisfacimento delle parti, Alfonso prese cordialmente congedo dal suo ospite cui, in seguito, si rivolse sempre come a un padre. Partì da Milano il 1° dicembre, scortato nuovamente da Piccinino. Sostando lungo il viaggio per la caccia e l’accoglienza delle varie cittadinanze, passarono per Piacenza, Parma e Pontremoli, finché il 10 dicembre, a Portovenere, Alfonso si fermò di nuovo sul suolo aragonese, risoluto più che mai a conquistare il suo regno.
Nota 64 – Testo del trattato pubblico ibid. III 553-7. Il trattato segreto in Bagnetti, “Per la Storia” 277-93. Il trattato segreto delimitava, con cura, le sfere d’influenza Aragonese e Milanese; quella di Milano si estendeva da Bologna verso nord, mentre quella Aragonese ricopriva tutto il Regno di Napoli. Nella zona centrale d’Italia, Milano rivendicava tutti i territori formalmente in suo possesso, permettendo che le ulteriori acquisizioni fossero divise in parti uguali. Alfonso garantiva di non invadere lo Stato del Papa senza l’accordo col Duca.
Traduzione di Silverio Lamonica
[La battaglia navale di Ponza del 1435. Alfonso il Magnanimo, di Alan Ryder (4) – Continua]