Traduzione di Silverio Lamonica
L’antefatto e i particolari della battaglia navale che si è svolta nelle acque di Ponza nel 1435. Per una presentazione generale, e dell’opera di seguito riportata, leggi qui
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Alan Ryder
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ALFONSO IL MAGNANIMO
RE DI ARAGONA, NAPOLI E SICILIA
1396 – 1458
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(Traduzione di Silverio Lamonica)
Pagine 112 – 113 ; da 202 a 221; 266 – 267; 334 – 335; da 368 a 375
TIPOGRAFIA DI CLARENDON – OXFORD
1990
pag. 112
…un presagio poco rassicurante per Pedro ed i suoi compagni, quando osservarono la loro flotta sparire dietro Ischia appena conquistata. Alfonso promise solennemente ai suoi sostenitori che sarebbe tornato per il successivo mese di maggio. Ben pochi potevano credere a quel giuramento.
Innanzitutto condusse le diciotto galee ed i dodici velieri a Gaeta dove impiegò dieci giorni a preparare la strategia difensiva al comando di Anton de Luna, un giovane nobile siciliano; nel controllo del suo bel porto naturale, utilizzato sia per tagliare le gambe agli attacchi genovesi, sia per tenere aperta la via al ritorno degli Aragonesi. Alfonso decise che si doveva approntare ogni cosa per lasciare Gaeta al più tardi in ottobre e, come ulteriore precauzione, attaccare preventivamente Genova, nel procedere alla volta della Spagna. Per sostenere l’attacco, fu richiesto a Firenze di fornire 1500 fanti che sarebbero stati imbarcati a Pisa. Ma questi piani cominciarono ad andare di traverso quando, appena lasciata Gaeta, s’imbatté in una tempesta da sud ovest che mandò a fondo una galea e lo sospinse nel porto; la maggior parte della flotta corse a ripararsi a ridosso dell’isola di Ponza. Perse oltre una settimana per raggiungerla. Quell’impedimento fu probabilmente responsabile del cambiamento di tattica che indusse a spostare l’obiettivo dell’attacco sull’angioina Marsiglia, al posto di Genova. Soltanto le galee fecero rotta su Pisa, mentre i velieri, al comando di Cardona, fecero subito rotta per le isole di Hyeres, al largo di Marsiglia, luogo d’incontro con le galee. A Pisa tutto andò bene con le autorità fiorentine che manifestavano entusiasmo per il sovrano, in contrasto con Milano. Le galee avanzarono con sicurezza verso nord, passando entro le venti miglia da Genova, non incontrando resistenza da parte delle ventuno galee e dei tredici velieri armati che ivi erano riunite. Dopo aver trovato rifugio a Nizza, a causa di un’altra tempesta, raggiunse il luogo d’incontro il 18 novembre. Le navi di Cardona arrivarono puntualmente proprio in quel giorno (Nota 109).
Il sacco di Marsiglia del 1423 (NdR)
La mattina di sabato 19 novembre, l’intera flotta si riunì nell’isola di Pomegue, in vista di Marsiglia, il gioiello marittimo della provincia angioina di cui Luigi aveva spogliato la difesa navale, nella ricerca della meta napoletana. Il piano di attacco prevedeva che l’Aragonese dovesse essere, di conseguenza, abbastanza forte per forzare l’entrata del porto che era protetto da un forte su ciascun lato, una catena attraversava la bocca dell’estuario e dei banchi di sabbia affioravano a metà canale. Tanta era la confidenza degli abitanti con questi ostacoli e la forza delle loro mura, che non adottarono speciali precauzioni, sebbene fossero stati messi in guardia del pericolo che si avvicinava da Nizza.
Nota 109
Un altro aneddoto di Beccadelli riferisce che ci fu una minaccia di tempesta appena la flotta si riunì al largo di Marsiglia, tanto da spingere sugli scogli una galea in balia delle onde. Quando tutti gli altri vascelli tralasciarono la difesa di Alfonso per soccorrere la nave in difficoltà, egli cercò scampo con la sua galea. Successivamente dichiarò: “Mi è sembrato più opportuno annegare con i miei eroici compagni, piuttosto che vederli morire di persona.”
(Dei detti e dei fatti, ii 19)
pag. 113
La battaglia iniziò con lo sbarco degli uomini da quattro galee, all’attacco di uno dei forti, la cui resistenza minacciò di essere ostinata, tanto che Alfonso fece raccogliere delle fascine per incendiare le porte e snidare i difensori col fumo. Ma appena il legname fu posizionato e acceso, un imponente diluvio sommerse le fiamme. Tentarono ancora, ma piovve di nuovo: un chiaro segno, pensarono in molti, che la provvidenza guardava in cagnesco gli Aragonesi. “La provvidenza, dichiarò Alfonso, mi deve dare una nuova chance”. Se si fosse ripetuta ancora quella risposta egli avrebbe accettato il verdetto e si sarebbe ritirato. Comunque, al terzo assalto le frasche fecero il loro lavoro. La guarnigione della torre depose le armi e fu rotto il capo della catena di sicurezza. L’attenzione si volse allora alla torre sull’altra sponda dell’entrata del porto. Sotto il fuoco di copertura delle galee, un plotone guidato da Giovanni de Corbera sbarcò per tagliare l’altro capo della catena ed aprire così la via alla flotta. Nel frattempo altra truppa da sbarco, all’interno del porto, s’impadronì di un cutter privo di uomini, diretto a sopraffare due battelli armati e, alla fine, impadronirsi di tutti i natanti presenti in porto. In quel momento fu preso il secondo forte e svincolata la catena; ma la resistenza fu più dura del previsto e calava ormai la notte. Un aspro confronto di opinioni tra il re ed il suo comandante in capo mise in evidenza pareri ben diversi. Cardona sconsigliava una rischiosa battaglia notturna in quelle viuzze troppo anguste. Corbera ammoniva che non si doveva dare il tempo al nemico di riaversi e rafforzarsi. Ora i catalani avanzavano con successo e già avvertivano il profumo del bottino, perciò non avrebbero dovuto ripiegare. Alfonso fu del parere di continuare la battaglia. Così al calar delle tenebre le galee, entrando nel porto sbarcarono le truppe sulle strette banchine. Non persero tempo a scontrarsi in un corpo a corpo nelle viuzze. Tizzoni ardenti, lanciati in quel groviglio di casupole di legno intorno al porto, provocarono una tempesta di fiamme che ingoiò per intero i vari rioni. Durante la notte un vento mutevole estese la distruzione dappertutto, sospingendo davanti a sé la popolazione in preda al panico. Il mattino seguente il re si scoprì padrone di una città devastata, dove solo i monaci di San Vittorio proseguivano in una strenua difesa all’interno della loro basilica, saldamente fortificata (Nota 110). Per due giorni i catalani si diedero al saccheggio.
Nota 110
La guida Michelin, a proposito di San Vittorio, mette in risalto: “All’esterno, con i suoi torrioni da battaglia, ha ancora l’aspetto di una fortezza. Si stima che il fuoco abbia distrutto 4000 case”.
La presa ed il saccheggio della città nel 1423… segnò per Marsiglia la fine di un’epoca. La città non ebbe più edifici, né beni mobili o immobili, toccò il fondo dell’annientamento (Baratier: Influenza della politica angioina. 691)
Vicens Vives definì il saccheggio: “l’ultimo grande fatto d’armi catalano nel Mediterraneo occidentale” (Els trastàmares, 113).
Veduta attuale di Marsiglia. La massiccia Tour Carrée viene elevata dopo il saccheggio degli Aragonesi (1423) da Re Renato, al posto della Tour Maubert per difendere l’entrata nel porto
pag. 202
Sul tardi Alfonso decise di assaltare Gaeta, piuttosto che rischiare di subire la rottura del suo blocco. Quindici barche con scale d’assalto appese agli alberi, si unirono alla flotta di galee che attaccava le difese marittime; a terra puntò le sue speranze su una grande torre d’assedio in legno che doveva aprire la strada a tre colonne assaltatrici comandate da lui stesso, da Enrico e da Giovanni. Pedro, a capo delle forze navali, manovrava sotto un assiduo fuoco di frecce e palle di cannone, nel tentativo di portare la nave a riva, solo per scoprire, con rammarico, che le scale d’assalto non riuscivano a raggiungere le mura che si affacciavano sul mare. Il paranco in tensione che li sosteneva cedette, gettando a mare i soldati posizionati sulle scale a pioli; tutti annegarono, tranne due che riuscirono a liberarsi dell’armatura e a nuoto raggiunsero la salvezza. Non essendo riuscita la medesima manovra ad una seconda barca, le altre si tenevano alla larga dalla linea di fuoco. A terra né uomini, né macchine da guerra potevano tener testa ad una difesa tanto determinata, quanto abile. Riconoscendo che l’attacco era fallito, Alfonso richiamò i suoi.
Ora tutto dipendeva dalla flotta genovese, le cui galee perlustravano il tratto di mare trenta miglia al largo di Terracina, se ciò poteva essere deprecabile, Gaeta ridusse i rifornimenti di due settimane, assolutamente necessari ad evitare la capitolazione. Invece di lasciare l’iniziativa al nemico, come aveva fatto a Bonifacio, Alfonso decise di tenere i genovesi ben lontani da Gaeta, dando battaglia in mare aperto. Aveva fiducia nei suoi vascelli catalani e siciliani i quali, numericamente in vantaggio, avrebbero messo alla prova i genovesi in più di uno scontro. Così a riprova della sua notevole mancanza di fiducia, prese personalmente il comando della flotta ed invitò ad accompagnarlo una moltitudine di nobili, amministratori, e perfino spettatori, come pure una coppia di ambasciatori di Barcellona. Si dice che soltanto la nave del re, un enorme vascello comandato da Jofre Mayans, avesse preso a bordo oltre ottocento di questi passeggeri superflui (Nota 53). Anni dopo si sostenne che lui prese il comando per mettere fine ad una lite tra Giovanni ed Enrico che si contendevano quel ruolo e che tutti gli altri avrebbero seguito il re che si era messo a rischio (Nota 54).
Comunque appare evidente che acquisì un certo gusto per le operazioni navali e potrebbe aver confidato nella speranza di una vittoria spettacolare, la quale avrebbe consolidato la sua reputazione di condottiero reale di operazioni anfibie.
La moltitudine festante si imbarcò il 3 agosto 1435. I fratelli reali presero ciascuno il comando dei maestosi vascelli che in tutto erano nove.
Nota 53
Si imbarcarono più di 800 persone della casa e della corte reale, come se andassero a festeggiare una vittoria certa (Zurita, Annales, VI 93).
Nota 54
E’ la versione degli eventi data da Beccadelli (De dictis et factis III, 56)
Traduzione di Silverio Lamonica
[La battaglia navale di Ponza del 1435. Alfonso il Magnanimo, di Alan Ryder (2) – Continua]