I miei racconti sono basati sui ricordi della fanciullezza, nella mia adorata Ponza.
Questa volta vi voglio raccontare dell’arca di Noè che avevamo in casa, ormai sapete dove vivevamo, è inutile che vi ripeta tutto.
Nella nostra arca di Noè non poteva mancare il maiale che, nelle case di allora, i nostri vecchi tenevano nelle grotte sotto casa o nei paraggi.
Eravamo negli anni ’53 –’54 e, insieme al maiale, allevavamo oche, galline, galline faraone, agnelli, capre e un montone brutto e cattivo: non vi parlo di lui bensì del maiale, anzi di una scrofa: la maiala, appunto.
Una mattina, dopo aver sfaccendato, la nonna disse a mia mamma: – ‘Ndune’ puort ‘u mmangià abbasci’a porca – Antonietta, porta da mangiare giù al maiale: crusca, assieme gli avanzi della sera prima e alle verdure che il nonno portava dal Fieno apposta per la scrofa. Oltre al pasto per il maiale e al granoturco per le galline c’ero io, come il prezzemolo, sempre presente; avevo solo 5 anni.
Mia madre diede il cibo alle galline e passò, con il secchio pieno, nel reparto porcherie; mi lasciò nel pollaio mentre lei versava tutto il secchio nella vasca in pietra della maiala che, grugnendo, ci si buttò a capofitto. Mia madre si allontanò di corsa, aveva paura di quella bestia, chiuse il cancelletto senza farci troppa attenzione, prese me per mano e facemmo ritorno in casa; lei si mise in cucina a preparare il pranzo.
Mia nonna e mia mamma erano lì a cuocere, io seduto per terra giocavo con i legnetti, quando dalla porta entrò la maiala grugnendo come mai prima aveva fatto. Dalla paura, mia nonna mi prese in braccio e mi mise subito sul tavolo di cucina, tanto grande e pesante che in due si faceva fatica a spostarlo; la maiala impazzita non solo era enorme come peso, ma cattiva – ‘na porca cattiva e zuzzosa – diceva la nonna. Mia mamma gridò alla nonna di salire assieme a lei sul tavolo dove avevano messo al sicuro il sottoscritto. Intanto la maiala continuava a fare casino, tutto quello che le veniva a tiro buttava per terra; avevamo un grande cristalliera con piatti, bicchieri… ’u servizio buon’ p’i fest’ e tutto quello che in una casa di allora era prezioso. Quella pazza di una scrofa mette il muso sotto alla cristalliera e comincia a far cadere i piatti, mia nonna che urlava, mia mamma pure, io non ero da meno, piangevo spaventato da tutto quel parapiglia, una volta tanto senza aver preso botte; mia nonna urlava – Vavattenn’ jesce ; e poi: – Giuann’… Giua’ – chiamava mio nonno che era lì sotto, nell’ orto, a miezz’i mulignàne e ‘i pummadore. Mio nonno, sentito tutto quel gridare, prese con sé un bel bastone pensando che qualche topo fosse entrato in casa, arrivò volando e, sorpreso, si trovò nel bel mezzo della guerra: c’era di tutto e di più, per terra; noi terrorizzati sul tavolo. La scrofa, come lo vide, divenne docile come un agnellino; lui prese una corda che era fuori, vicino ‘a piscina, passò il cappio al collo della ‘belva’ e la riportò nella porcilaia, docile come se non avesse fatto niente: la maiala si era spaventata del gigante buono che era mio nonno.
Scendemmo dal tavolo e per la cucina sembrava fosse passato un ciclone: le sedie rotte, le ceste con aglio e cipolle sparse in giro, le giare dove si tenevano le olive in salamoia per fortuna non le aveva toccate, il danno grosso l’aveva subìto la cristalliera, mia nonna dovette infilare tra la cristalliera e il pavimento tre cuscini, per poter aprire le ante. La vedevo piangere e sorridere, quando trovava qualcosa di rotto le lacrime venivano fuori da sole, allora non c’era lo spreco di oggi, che si rompe un piatto ne compri altri dieci; non avevamo soldi e, con quei pochi, dovevamo vivere; quando trovava qualcosa che non si era rotto, la nonna tirava un sospiro di sollievo.
Passammo una brutta mezz’ora con quella sciroccata di maiala, mio nonno si ripromise che non avrebbe più preso maiali da crescere. Invece ci ritrovavamo ogni due anni un nuovo maiale da allevare, povera donna mia nonna, si rassegnava perché sapeva che quel maiale era il nostro sostentamento per il lardo, la sugna, i ciccioli fritti, ‘i cigule. E chi se le scorda, le salsicce e i due prosciutti che mio nonno faceva con maestria! Stagionavano giù in cantina; quando era il tempo di tagliarne uno, era come se le campane suonassero a festa, ti dimenticavi tutto il brutto che avevamo passato nell’allevarli. Quanta soddisfazione negli occhi di quei vecchi, nel vedere noi crescere…
Ringrazio sempre il Signore di avermi regalato quei tempi e una famiglia meravigliosa.
Lino Catello Pagano