di Lino Catello Pagano
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Mentre il mio cuoco, che aveva viaggiato con me, metteva in ordine la cucina ferma da mesi, dal capo cantiere ricevemmo una piccola dispensa con dei viveri.
Discutemmo con il capo cantiere il da fare, visto che eravamo arrivati a giugno e con tre mesi di anticipo sull’apertura del campo: qui comincia la mia avventura!
Mi diedero un fuoristrada che era il mio mezzo per spostarmi e per acquistare; mi recai da Padre Berton, l’unica persona che potesse aiutarmi, umanamente. Gli esposi il mio problema e lui rise come un matto: avevo bisogno di personale locale, camerieri, baristi, addetti alle cucine, addetti alle camere e via così. Padre Berton mandò un ragazzino a chiamare uno del villaggio che parlava bene l’inglese, arrivò Cristian che divenne subito il mio assistente. Gli spiegai di cosa avevo bisogno; il giorno dopo si presentò con il suo amico Ammed Moussa, che diventò il mio factotum; gli diedi il nome di Mr. Cappuccino perché faceva un cappuccino non buono ma buonissimo – gli avevo insegnato io a farlo, e devo dire che era dieci volte meglio del mio.
Cristian era addetto agli acquisti nel periodo in cui io ero occupato della preparazione del personale. Ho fatto scuola alberghiera per circa due anni a un centinaio di ragazzi che lavoravano per me; Moussa era addetto alla supervisione delle stanze; ho addestrato lui per primo alla pulizia, al riassetto delle stanze degli ospiti, al rifacimento dei letti; fatta una stanza, gli dicevo di fare le altre come quella che avevo fatto io. Era un grande, Moussa, capiva al volo quello che volevo ed eseguiva, mi portò tutti gli altri che composero il gruppo di trenta ragazzi addetti alle camere. Pensate che eravamo 85, il gruppo che formava tutto il catering, oltre ai 300 espatriati della Azienda ospitante.
Arrivai a Bumbuna il 19 giugno dell’89, vigilia della festa di San Silverio, a me molto cara; dedicai a Lui il mio periodo in Sierra Leone, che durò fino alla fine di settembre ’91. Ne ho viste di tutti i colori.
Nei primi mesi filò tutto bene, tranne che con il cuoco; avevo capito che non sapeva cucinare e che si era venduto come tale tramite attestazioni false, incominciarono i primi dissidi, sapeva cucinare un solo tipo di sugo, pomodoro e piselli, i commensali erano stufi, incominciavano a non sopportarlo più, facevano pressione su di me affinché lo mandassi via; chiesi alla mia società il da farsi, proposero di tenerlo almeno per una decina di giorni, risposi che non era possibile, che l’avrei fatto rientrare entro due giorni. Per quasi un mese avrei dovuto fare io il cuoco; non avevo paura, sapevo cucinare, avevo avuto l’esperienza (e la riconoscenza) della Techint in Libia! Quando il cuoco andò via, rimasi un mese a far da mangiare per 120 persone e tutto filò dritto.
Anche qui ci misi anima e corpo e andò tutto bene fino al momento in cui mi presi la mia prima bella malaria; c’erano 35 gradi all’esterno ed io cucinavo con un giaccone pesante addosso e la febbre a 40 °C. Stavo malissimo ma il dovere prima di tutto, mi ero impegnato e l’avrei fatto anche morto.
La mia fortuna fu che avevamo al campo un medico locale molto bravo, tropicalista, aveva studiato a Milano, mi diede una dose di chinino e ritornai più pimpante di prima.
Il mio grande amico Bepi veniva tutte le mattine a visitarmi e a vedere come andava; mi promise che non appena mi sarei ristabilito mi avrebbe accompagnato a Freetown e mi avrebbe portato a vedere cosa aveva messo in piedi per i senza famiglia e i bambini soldato.
A Bumbuna le zanzare e le rane sono state un incubo continuo per tutte le notti che ho dormito lì.
La guest house si trovava sopra una collinetta che dominava la valle del fiume Seli e il villaggio. Lo spettacolo che si poteva ammirare dall’alto era vario e piacevole: il villaggio con le sue grandi capanne dal tetto in lamiera, il fiume Seli, il rumore monotono della cascate, le montagne piene di rigogliosa vegetazione.
Al tramonto le zanzare vanno alla ricerca di cibo, cioè di sangue: a centinaia ci assalivano. Avevamo tutti le camicie con le maniche lunghe abbottonate ed il colletto alzato. La parte bassa dei pantaloni era infilata dentro le spesse calze militari, oppure era legata con spago, per impedire alla zanzare un attacco dal basso. Creme e liquidi antizanzare erano diventati onnipresenti.
Che vita! Non riuscii mai ad andare con Bepi a vedere quello che aveva messo su per i bambini senza famiglia…
Lasciammo la Sierra Leone perché dalla Liberia arrivavano attraverso la foresta i terroristi di Taylor, e quelli non guardavano in faccia nessuno: uccidevano, tagliavano le mani ai bambini e ai vecchi. Si decise di evacuare il campo e di rientrare in Italia. Avvisammo l’ambasciata di Freetown e una mattina presto, verso le cinque, ci dirigemmo all’aeroporto; arrivammo a destinazione dopo 8 ore di viaggio, stanchi, sporchi, affamati, pronti a farci 48 ore di volo Freetown- Lisbona- Milano, con sosta nell’aeroporto di Lisbona di 6 ore per avere la coincidenza con la destinazione finale.
Lino Catello Pagano
[Per la serie “Ponzesi che viaggiano”. I miei ricordi. In Sierra Leone (3) – Continua]