rievocazione di Silverio Lamonica
Il Calendario Storico del mese di Maggio – leggi qui – in data 24 dell’anno 1954 riporta un avvenimento molto triste per Ponza e la sua marineria. L’affondamento del mercantile “San Silverio” su cui erano imbarcate dodici persone, di cui ben dieci ponzesi. Solo sette si salvarono. Delle cinque vittime, solo quattro furono recuperate: 3 ponzesi ed un torrese (Torre del Greco); la quinta salma, Italo Ital da Venezia, scivolò dalle mani dei soccorritori e si inabissò.
L’onere del riconoscimento delle salme se lo assunse il secondo macchinista Francesco Aprea, già sopravvissuto al naufragio del Santa Lucia nel luglio del 1943. Purtroppo un altro naufragio, negli anni ’60, mise fine alla sua esistenza.
Enorme fu il cordoglio sia a Santa Margherita Ligure, dove approdarono i naufraghi, sia a Ponza, dove si svolsero i funerali solenni, qualche giorno più tardi. Tutta l’isola si strinse attorno a quelle tre bare, che all’uscita dalla chiesa, dopo il rito funebre, furono salutate da un picchetto d’onore: il corteo era formato da alcune migliaia di persone con il Sindaco, Dr. Francesco Sandolo con fascia tricolore e gonfalone listato a lutto, le autorità, la banda musicale che intonava la marcia funebre Op. 35 di Chopin, diretta dal Maestro Anzalone; l’imponente corteo funebre evocava la processione del Santo Patrono.
Quel ricordo in me è ancora molto vivo: suonavo il flauto traverso in quella banda musicale. Al cordoglio unanime seguì, per alcuni anni, uno strascico di polemiche.
Voglio qui riportare un articolo che apparve su “La Nuova Stampa” dell’epoca, pag. 3 del 25 maggio, dove il cronista descrive, con toni molto drammatici, quell’avvenimento così tragico.
Con questa testimonianza, attraverso “Ponza Racconta”, intendo dare un omaggio doveroso a quei marinai morti tragicamente 58 anni fa e a tutta la gente di mare, deceduta in servizio e ai marittimi in genere che quotidianamente ne affrontano le insidie.
Silverio Lamonica
IL MERCANTILE AFFONDATO AL LARGO DI PORTOFINO
NELLA NOTTE CINQUE MARINAI ASSIDERATI FRA LE ONDE TURBINOSE
L’atroce agonia dei giovani aggrappati al relitto di una scialuppa nell’infuriare della tempesta. Quattro salme recuperate.
La motonave trasportava pirite. Il racconto dei superstiti:
un errore nel lancio dell’ S.O.S.
(dal nostro inviato speciale)
Santa Margherita Ligure, 24 maggio
Il “San Silverio”, una grossa motonave da carico del Compartimento marittimo di Napoli, è affondata stanotte, verso l’una, a meno di 30 chilometri dalla costa ligure. Degli uomini a bordo, sette sono riusciti a trarsi in salvo, Cinque sono periti nel naufragio. Due salme: quelle di Pasquale Sorrentino e di Italo Ital da Venezia, non sono state ancora recuperate.
La “Dinda”, un motopeschereccio di Camogli, uscita stamattina per le ricerche sullo specchio d’acqua di San Fruttuoso, è rientrata nel tardo pomeriggio nel porto di Santa Margherita Ligure con tre salme a poppa, ricoperte da un telone: “Venga uno dei naufraghi” Chiamò allora ad alta voce un capitano dei carabinieri.
Dalla banchina affollata di pescatori e di curiosi, si staccò un uomo grigio e triste, a capo chino: il secondo motorista del “San Silverio” Francesco Aprea. Entrò nella “Dinda”, sollevò il telone, scrutò il volto di ciascuno: i suoi tre compagni giacevano supini, con le braccia irrigidite, il volto livido e le membra quasi marmoree. Aprea li riconobbe e mormorò i loro nomi, quasi invocandoli con tenera trepidazione: Vitiello Salvatore, Feola Giuseppe, Feola Alessandro. Si avvicinò anche il Dr. Umberto Vaccaro, che constatò la loro morte. Il Dr. Vadi, Procuratore della Repubblica di Chiavari, annotò ciascun nome su un foglietto di carta e lo infilò nella cinghia dei pantaloni dei tre sventurati.
Un’ora dopo arrivò il furgone con le casse: i tre vi furono adagiati. I pescatori si scoprirono, qualcuno fece il segno della croce; gli ufficiali e i marinai presenti fecero ala e salutarono militarmente. Salvatore, Giuseppe e Alessandro lasciarono così il porto di Santa Margherita, verso il quale avevano per molte ore fissato di lontano lo sguardo pieno di speranza. Il capitano Angelo Fabiani della “Dinda”, ha raccontato che uno dei tre naufraghi ripescati dai suoi uomini, il più giovane, Salvatore, di 26 anni, aveva forse ancora un alito di vita. Una tenue favilla di calore nel sangue, quando fu tratto a bordo. Ma non aprì gli occhi, non si rianimò, malgrado gli schiaffi, la respirazione artificiale, il rude trattamento con il quale i pescatori sono soliti ricacciare indietro la morte in casi consimili.
Il “San Silverio” era partito a mezzogiorno da Rio Marina, un porticciolo dell’Isola d’Elba, dove era stato effettuato il carico di pirite. Puntava su Savona dove avrebbe dovuto arrivare stamattina prima dell’alba.
Il “San Silverio” era una grossa motonave, adibita a trasporti per conto della Montecatini: 793 tonnellate di stazza, 408 nette. La pirite, però, è “un brutto carico” dicono i marittimi di lunga esperienza, perché spesso è melmosa, pesante e quando il mare e la sfortuna si accaniscono, può giocare brutti scherzi, anche alle navi più stabili e sicure. Tale era il “San Silverio”, un bel naviglio.
Ma la notte e il libeccio avevano teso un agguato mortale alla nave dei ponzesi. Mentre facevano rotta per Savona, il mare si fece grosso e svegliò di soprassalto i marinai che dormivano nelle cuccette. Nella stiva il carico melmoso di pirite ondeggiava paurosamente. Un maroso s’infranse di traverso contro la fiancata del “San Silverio”. Fu il colpo decisivo all’equilibrio del carico e la pirite, riversatasi tutta sulla sinistra, sbilanciò la nave che incominciò a inclinarsi su un fianco.
Il lamento dei compagni
Il capitano Giuseppe Mazzelli (sic) – la massima autorità dell’imbarcazione sul mare – ordinò al nostromo di mettersi alla radio per trasmettere il messaggio di estremo pericolo. Erano le 0,07 di stamane: “Sto sbandando rapidamente. Sto affondando. Mandate immediatamente soccorsi. Sono a dieci miglia a ovest di Genova”.
“A dire il vero avevo ordinato al nostromo di indicare approssimativamente la posizione sud-ovest, ma in quel momento egli può non aver capito. Non avevamo ancora avuto il modo di controllare con esattezza, con gli strumenti, la rotta. Quando scesi in cabina per rettificare il messaggio – ci ha narrato il capitano Mazzelli – d’improvviso mancò la luce. L’apparecchio radio non funzionò più; il motore, poiché il carburante e l’olio non affluivano più a causa dello sbandamento, si fermò. Rimanemmo soli nel buio. Ordinai: ‘Scialuppe in mare. Si salvi chi può’
Rimasi a bordo – continua il capitano – finché tutti gli uomini furono scesi in scialuppa, finché fui certo che la nave si inabissava. Poi mi gettai in mare, raggiunsi la scialuppa n. 2 che mi aspettava”
Rovesciatosi sul fianco sinistro, il “San Silverio” si impennò, la poppa fece da zavorra e la nave scomparve. Erano passati dieci minuti dall’ondata fatale.
E gli uomini? Il lancio dei battelli di salvataggio era avvenuto in modo irregolare, data la velocità con cui la nave si inclinava sul fianco sinistro. Nello sbattere sulla superficie del mare, la scialuppa n. 1 si avariò, imbarcò acqua dalla prora sfasciata, ma rimase a galla grazie alle “casse d’aria”.
I cinque dell’equipaggio che avevano affidato la loro sorte all’imbarcazione, furono costretti ad aggrapparsi alle sue sponde, rimanendo immersi sostenuti dalle cinture di salvataggio. I cinque disgraziati si diedero a urlare: fecero segnali alla scialuppa 2 per avvertire che non potevano rimanere a lungo in quella posizione. Facessero presto, andassero a riva i compagni per dare l’allarme. Sulla scialuppa 2 il capitano Mazzelli , il secondo motorista Francesco Aprea, suo cugino Vincenzo Aprea, il mozzo Franco Iodice, il cuoco Angelo Vitiello, il primo motorista Antonio Castagna e il nostromo Domenico Sandolo avevano preso posto.
Domenico Sandolo, il più anziano del “San Silverio, udì lontano, nell’urlo della tempesta, il lamentarsi dei compagni, li vide agitare le braccia disperatamente: “Guagliò, vugamme a riva, li dobbiamo salvare!” disse ai compagni.
I sette della scialuppa 2 si guardarono in faccia. Rimanere significava ritardare l’opera di salvataggio; del resto la “Due” è appena un guscio di noce. Sette erano già troppi. Non si poteva vogare verso i compagni, perché il vento soffiava contrario. Mancava all’imbarcazione il tappo regolamentare: il nostromo si tolse la camicia e turò il foro.
Una fragile prora
Fecero forza sui remi, indirizzando la fragile prora verso la luce che lontano s’accendeva e spegneva sulla costa, la punta del faro di Portofino.
Alle 3,30 parve che San Silverio dall’alto fosse mosso a pietà. Un vapore, infatti, con tutte le luci accese si avvicinò alla barchetta. I sette, con tutto il fiato dei loro polmoni urlavano in quella direzione. Urlano nuovamente: il nostromo, a poppa, dava il segnale perché le voci uscissero tutte unite da quei petti.
Urlano per la terza volta, per la quarta volta. La nave era a 300 metri ma la voce dei naufraghi non fu udita. Si perdeva lugubremente nel buio, si rompeva nell’urlo della burrasca. I sette ripresero i remi, rimisero la prua verso il faro, continuarono a darsi coraggio: “Vugamme, guagliò, la costa è vicina. Quei poverini ci aspettano!”.
Ma la punta di Portofino era più lontana di quanto credessero: l’alba, velando i contorni della costa, li scoraggiò, tanto remota appariva la salvezza.
Arrivarono a Portofino alle 8,30 di stamattina. I pescatori li accolsero con affettuosa trepidazione, offrirono coperte, grappa, pane, minestra, frutta. Ma i sette non vollero mangiare. “E gli altri?” chiedevano.
I pescatori risposero che da terra erano partiti i soccorsi. Al S.O.S. si erano diretti verso il punto indicato la corvetta “Daino”, il “Britannia”, il “Fais” l’“Iberia”; anche un aereo “ Cant 2” aveva sorvolato le acque indicate come il luogo della sciagura. Un piroscafo statunitense aveva avvertito che si era pure messo alla ricerca del “San Silverio”. Tutte queste imbarcazioni battevano però una strada sbagliata: il messaggio del “San Silverio” parlava di un punto dieci miglia a ovest di Genova. Perlustrarono vanamente, perciò, il tratto di mare da Varazze ad Arenzano. Il capitano Mazzelli, appena sbarcato dalla scialuppa, avvertì dell’errore: non ad ovest, ma ad est doveva cercarsi la disgraziata lancia n. 1 rimasta nella notte gelida.
Egli stesso, con due compagni di naufragio, salì su una motovedetta e perlustrò a lungo il mare, senza riuscire a scorgere la scialuppa n. 1, mezza affondata, senza riuscire nemmeno a dare indicazioni tali da correggere l’errore iniziale.
Fu la “Dinda”, incrociante nelle acque di San Fruttuoso, ad individuare, verso l’una, quattro uomini abbandonati, supini sulle onde ormai placate. Uno di essi, cadavere, scivolò alla presa dei pescatori e si inabissò. Gli altri tre, come abbiamo detto, furono presi a bordo e poi portati a Santa Margherita. Più tardi la “Onda” recuperava un bidone galleggiante sul mare e la “Daino” una quarta salma, identificata per quella del mozzo Pasquale Sorrentino da Torre del Greco.
Era ormai sera quando il “Cerretto”, una motovedetta della Guardia di Finanza, attraccava a Santa Margherita con un pietoso carico: la scialuppa n. 1 cui i cinque uomini del “San Silverio” erano rimasti aggrappati per lunghe ore, fino a giorno fatto, fino a che il freddo e la fatica non li vinsero, uno dopo l’altro. Il Comandante della Capitaneria di Santa Margherita ha iniziato un’inchiesta sulla sciagura.
Gigi Ghirotti
sandro vitiello
29 Maggio 2012 at 09:36
Il mio nome (Alessandro) è legato alla scomparsa in quell’evento del mio zio Feola Alessandro, marito di Pompea Balzano (‘a capurala) e padre di Bonaria e Amedeo (in America).
Era già passato più di un anno da questo triste fatto che, alla mia nascita, si pensò di ricordare il nome di questo marinaio.
Saluti Sandro (Alessandro) Vitiello.