di Simone Perotti
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Bjorn Larsson mi chiese un giorno: “Ma voi, di cosa avete scritto? Avete avuto l’epopea dell’emigrazione e l’avete ignorata. Avete avuto le guerre in casa e, a parte pochi casi, le avete ignorate. Avete avuto il mare e l’avete ignorato…”
Mi parve triste dover constatare che aveva ragione. Dunque, di cosa abbiamo scritto? Forse di madonne piangenti, poeti bigotti, regnanti truffatori, facendoci attrarre da cose lontane (come le Gerusalemme liberate e le ancor più lontane giungle di Sarawak), perché il lontano c’è sempre parso migliore del vicino, oppure ci siamo intestarditi sui piccoli equivoci senza importanza del nostro ombelico, dai cipressi in duplice filare ai pasticciacci, dalle rivolte del pane ai soprusi dei signorotti, e da tante altre ancor più rispettabili tematiche. Ma non dal mare.
Come si comprende non c’è alcun giudizio di merito in questo. Personalmente ho amato Salgari e Gadda, così come decine di autori italiani a cui devo moltissimo. I nostri grandi autori, che hanno scritto testi memorabili e meravigliosi, non possono essere ridotti nel loro valore perché hanno ignorato qualcosa. Viene però da chiedersi perché lo abbiano fatto tutti, in massa, dunque anche i geni a noi più prossimi come Calvino, Pasolini, Fenoglio e i tantissimi altri che sarebbe lungo citare.
Se non fosse per piccoli esempi (da Niceforo e Giovanni Arcidiacono che raccontano la traslazione delle spoglie di San Nicola, a Piovene, a Comisso, da D’Arrigo a Vassalli, da alcuni splendidi frammenti di Dante a Verga, dal Manlio garibaldino al porto sepolto ungarettiano o agli Ossi di Seppia di Montale, dai romanzi di Brignetti ad alcuni ispirati contemporanei) dobbiamo infatti ammettere che i nostri letterati non sono mai stati affascinati dal mare, nonostante questo componga il pianeta per i sette decimi, nonostante la conformazione e la storia del nostro Paese, nonostante le mille storie e avventure che da esso sono giunte gratuitamente e costantemente, teorica e felice dotazione di cui qualunque scrittore sarebbe felice di approfittare.
Stiamo parlando del mare, luogo fisico e ambito culturale, psicologico, emotivo di enorme impatto letterario. E infatti, un po’ dovunque, dunque anche in paesi con relazioni nautiche assai inferiori alle nostre, il mare ha suscitato profonda fascinazione.
Il pellegrino e apostolo irlandese San Brendano viene definito l’Ulisse celtico, o il precursore di Colombo. Il testo “Navigatio Sancti brendani” è del IX secolo, ed è una immrama in latino [genere di racconto dell’antica Irlanda concernente viaggi di scoperta per mare – NdR], fondato su un personaggio storico realmente esistito. La saga di Tristano e Isotta è un esempio molto importante per quanto riguarda la presenza del mare e delle barche come “personaggio” comune della letteratura. Costituisce un esempio ideale che mostra come noi e i francesi, in letteratura, siamo stati più o meno affascinati e suggestionati dal mare.
Perfino nella cultura tedesca ci sono delle navi. Basti ricordare “La Nave dei folli” (Narrenshiff) di Sebastian Brant (1494) che fu per un paio di secoli il libro più letto della zona germanica.
Quando i navigatori arabi, dopo l’egemonia romana e il periodo d’interregno della decadenza e delle invasioni barbariche, assursero a dominatori dei mari eravamo intorno all’VIII secolo. Le repubbliche marinare poterono competere solo dal XIII secolo. Ecco infatti nascere e affermarsi la figura letteraria di Simbad il Marinaio, successivamente inserito nelle Mille e una Notte, capisaldo della letteratura di una cultura che, pure, ha più a che fare coi deserti di sabbia che d’acqua salata.
Ma gli esempi sono tanti. Hanno scritto di mare un po’ tutti. Non noi.
Ho fatto questa spero non tediosa premessa, per spiegare quanto sono contento. Giunti al termine della lettura di questa intensa raccolta di poesie avrete ovviamente compreso il perché. Il mare, sotto forma di comandanti (Ulisse e non solo) o di isole immaginarie, pervade e dilaga tra le righe di questi due poeti, tra le parole, perfino tra le lettere che le compongono, e vorrei dire tra i puntini d’inchiostro (un nero mare anch’esso) che, in sequenza, disegnano le lettere. Mare ovunque. Come deve essere. Com’è giusto che sia per chi voglia ancora considerarsi un essere umano.
Mare Mediterraneo, vorrei aggiungere, se non temessi d’essere pleonastico. Come col pesce, che negli oceani è assai meno saporito, così col mare, che fuori dal Mediterraneo pare perda la coniugazione simultanea tra suoni, musica, sapori, cultura, religioni, etnie, continenti, colori.
Simi e De Luca riprendono dove ci eravamo fermati con l’Eneide e gli Ossi di Seppia, ed estendono le categorie della sensibilità a un mondo intero, quello del Mare Mediterraneo, smettendo di essere solo italiani, dunque essendo veri poeti italiani. Il nostro popolo, la nostra cultura, dimentica troppo spesso di essere stata sintesi, da sempre, e di aver tratto energia da questo, riuscendo laddove l’antitesi aveva spesso fallito. Non per caso, ma per chiara citazione culturale, tra le pagine pullulano gli idiomi, le lingue, i neologismi estorti al dialetto meticcio dei porti, esperanto tanto privo di etimo e di traduzione quanto comprensibile alla popolazione del mare.
Con ogni documento in regola, questa poesia può dichiararsi mediterranea, perché declina, sutura, permea, invece che disgiungere, lacerare e diluire. Ruvidi ed elastici come cime di manilla, [una fibra tessile ottenuta dalle foglie di abacá (Musa textilis), pianta del genere del banano – NdR], questi versi assorbono su di loro il puro e l’impuro, raccolgono vita e morte, ondeggiano come posidonie tra veli di lino nella brezza del pomeriggio estivo e sbattono sonoramente sotto le raffiche di maestrale. Poesia che, giurerei, piacerebbe a chi considera valore “sapere in una stanza dov’è il nord” o conoscere il nome dei venti o quello dei componenti di un’imbarcazione. Poesia che a leggerla ci si riconosce, si scopre di avere una casa, si scorge un fratello nei lineamenti di uno sconosciuto, come avviene quando si legge il maestro Predrag Matvejevic’, che devotamente saluto dall’ultima pagina del libro che lui ha iniziato.
De Luca e Simi danno il loro prezioso contributo, finalmente, per iniziare a colmare il lungo silenzio della gran parte dei poeti nel canto del Mediterraneo. Oggi che un Mediterraneo, pure ferito e prono, c’è ancora. Canto di vita macerata dal sole e dal salmastro, resa vecchia anzitempo, rugosa, eppure così gravida di speranza. Speranza che, nell’epoca dell’olocausto marino dei migranti attratti dal miraggio della decadenza europea, è curva come un anulare di salvataggio e ancora naviga tra le onde. In attesa di una mano che l’afferri.
Simone Perotti
[Postfazione ad “Adespota”, raccolta di poesie di Antonio De Luca e Andrea Simi (2) – Fine]