Ambiente e Natura

I ‘miei’ gatti di Ponza

di Luisa Guarino

 

Luisa Guarino – ‘confinata in Kenia’ – si duole di non avere con sé il suo prezioso album dei gatti; alcuni li ricordiamo ancora anche noi. Mentre ci prenotiamo con Luisa per un aggiornamento dell’articolo quando sarà ritornata in patria, prendiamo in prestito un portfolio di “gatti di Ponza” da Rita Bosso, altra famigerata ‘gattara’…

Sandro

 

Con grande tenerezza ho letto di recente lo scritto dell’amico fraterno Franco Zecca “I cani di Ponza” (leggi qui) e in particolare del suo levriero Dario, il cui ricordo nonostante gli anni è sempre vivo tra noi amici. Così ho pensato di dedicare uno scritto ai ‘miei’ gatti di Ponza: a tutte quelle indimenticabili bestiole che mi hanno fatto compagnia fin dall’infanzia nei soggiorni estivi nell’isola. Andiamo per ordine. Quando vivevamo alla Parata, casa nostra era troppo in alto, con il portone sempre chiuso, per poter permettere a qualche micio di passaggio di godere della nostra ospitalità. In compenso nonna Fortunata e zia Concettina nei locali di Via Roma dove oltre all’abitazione c’era anche l’osteria (oggi si direbbe bar o caffè) ‘Rifugio dei naviganti’ (attualmente ristorante ‘Chez Cocò’), hanno accolto in tempi successivi Fuffi, una deliziosa gatta angora da noi importata da Sermoneta, con un occhio di colore diverso dall’altro, Giggetto, esemplare più ruspante di italico grigio tigrato, tipo soriano, e Rikki (da Rikki Tikki Tavi, personaggio del “Libro della giungla”). Della prima ricordo alcune foto che la ritraevano sul davanzale della finestra della facciata, sempre inondata di sole, dove nonna e zia tenevano tutto l’anno anche una bella pianta di basilico che era il loro orgoglio.

Quando ci siamo trasferiti sulla Dragonara ero adolescente. Nella casa di zio Amerigo, che all’epoca viveva in America ed era il padre di zio Aldo Coppa, dottore nonché padre di Lucia e Ersilia, gli spazi erano grandi e aperti verso l’esterno, strada da una parte e soprattutto campagna dall’altra con alberi da frutto, cespugli e fiori (da molti anni, credo da quando si sono sposati, lì vivono Lucia e Michele Rispoli): una vera pacchia per le bestiole di passaggio, ma soprattutto per me, sempre alla ricerca di un gatto da rifocillare e accarezzare. La prima della serie è stata Chiaretta, così chiamata perché si era presentata in agosto, nel giorno di Santa Chiara, bianca con ampie pezzature tigrate. Era incinta e dopo un po’ ha fatto i cuccioli, introvabili. Dopo parecchi giorni a furia di tendere l’orecchio abbiamo captato dei sommessi miagolii all’interno di un cespuglio di more proprio sotto il nostro terrazzo. Con mille accortezze abbiamo preparato una cuccia riparatissima e morbidissima dove abbiamo trasportato i piccoli, sottratti tra mille difficoltà e graffi all’inaccessibile rifugio: niente da fare, mamma Chiaretta si è ripresa uno per uno i gattini e li ha riportati nel suo nascondiglio. Finché non si sono fatti grandi e sono venuti allo scoperto, giocando e correndo sull’ampia corteglia accecante di calce. C’è un episodio legato a quando erano un po’ più grandini. Una sera con mio fratello Silverio, gli amici inseparabili Franco Zecca, Sandro Russo, Fausto Capozzi e altri che non ricordo, abbiamo organizzato una grigliata di sarde all’aperto, la cosiddetta ‘Sardellanza’ [Aaah… la sardellanza sai, è come il vento… – NdS (Nota di Sandro)]. Bene, di quella serata epica resteranno due ricordi indelebili: la signora che abitava lì, detta ‘a Vucculella’, che è scomparsa l’estate scorsa e ricordiamo con affetto che, preoccupata dal vento urlava: Stutate ’stu ffuoco!; e questi gattini che mangiavano le sarde con voracità, vomitavano… e poi riprendevano a mangiare.

Un’altra estate invece di ospiti a quattro zampe non si vedeva neanche l’ombra… e io fremevo, anzi cominciavo proprio a sparpetiare. Così mi sono messa a chiedere in giro tra amici e conoscenti se ne avevano uno da darmi. Al mio appello ha risposto finalmente l’amico, fin da allora, Franco De Luca. Ma c’era un problema. La sua gatta aveva messo al mondo tre piccoli e lui doveva darli via tutti e tre, peraltro ancora da svezzare: non mi sono sottratta all’arduo compito. Tenevo i tre gattini, piccolissimi, in uno scatolone imbottito di stoffa e panni di lana e dovevo dargli il latte con mille difficoltà a tutte le ore, giorno e notte: ricordo che tenevo il cartone sotto il letto, sempre a portata di mano. Purtroppo due dei micetti non ce l’hanno fatta e con mia grande disperazione sono morti uno dopo l’altro: uno era grigio cenere vellutato, l’altro rossiccio. Restava l’ultimo, tra l’altro il meno bello, e con immensa tristezza avevo messo in conto che anche a lui sarebbe toccata una triste sorte. Così proprio la mattina che era rimasto solo in quella scatola ormai troppo grande ho deciso che non sarei andata a fare il bagno e l’avrei tenuto sempre in braccio, quasi a consolarlo e a consolarmi in anticipo per la sua scomparsa. Non ci crederete: sarà stato il calore, o la forza dell’amore o perché quello che sembrava il più ‘scarrupatello’ alla fine era il più resistente, il piccolo è sopravvissuto e al rientro dalle vacanze me lo sono portato a Latina: tigrato, lo abbiamo chiamato Musu, diminutivo del suo nome intero, Musumeci Greco.

L’ultimo ospite della casa ‘in campagna’ sulla Dragonara è stato Shastri, un bel micione a grandi macchie bianche e nere, coccolone come pochi, che amava molto mangiare e aveva spesso la pettorina bianca sporca di ragù. Il suo attaccamento alla nostra famiglia doveva essere davvero forte tant’è che ci ha seguiti anche quando ci siamo trasferiti nella parte più bassa della Dragonara, sotto la casa di Francesca (Ciccina) Ramunno. Un aneddoto divertente in questo caso è legato a mia nonna Fortunata, che forse per la vista indebolita dall’età e dalla luce abbagliante dell’esterno, a volte, la maggior parte, gli faceva grandi feste e gli offriva deliziosi bocconcini, altre invece non lo riconosceva e lo ‘invitava’ ad allontanarsi come fosse un estraneo. Da allora sono trascorsi decenni, e nel piccolo cortile si sono succedute intere generazioni di gatti, singoli e in gruppetti familiari, dei dintorni: mangiavano, dormivano e a modo loro ci facevano compagnia. Lo testimoniano foto a non finire. Non parliamo poi quando ho cominciato a portare da Latina le mie gatte, dal 1990 Mafi (Mafalda), cui dal 1998 si è aggiunta Brumi (Brumilde). Per i miei gatti ponzesi era una garanzia in più per poter contare su scatolette e croccantini, anche se le ‘padrone di casa’ non vedevano la cosa troppo di buon’occhio, soprattutto Mafi, la più grande e meno incline a socializzare, che infatti preferiva restarsene in casa, su un letto o su un cuscino. Brumi invece talvolta esprimeva qualche preferenza: non disdegnava ad esempio la compagnia di un maschietto con i suoi stessi colori che le assomigliava parecchio, proprio per questo lo avevamo chiamato Cuginetto. Solo parecchio tempo dopo ho saputo dalla sua padrona che abitava a pochi passi da noi che il suo nome era Lupacchiotto. Poi un’estate non è venuto più. La padrona addolorata mi ha spiegato che qualcuno l’aveva ucciso, gli aveva sparato. Cosa che ancora mi mette i brividi.

Ma anche oggi per fortuna posso contare su una presenza pelosa ‘amica’, che ritrovo puntuale al mio arrivo. Si tratta di una bella gatta ben ‘pasciuta’ dal mantello in parte tigrato in parte bianco che ‘appartiene’ a una signora che abita una rampa di scale più sotto. Non so il suo vero nome. L’ho chiamata Lamentina (detta Mentina) perché più che miagolare emette un delicatissimo ‘lamento’: la maggior parte delle volte non le interessa assolutamente mangiare, vuole solo stare in nostra compagnia, accoccolata su una poltroncina che lascio nel cortile apposta per lei, in ombra perché il sole non le dia fastidio. Ci segue ad ogni passo, anche in cucina e nel bagno, strofinandosi compiaciuta sulle nostre gambe, e guai a lasciarla fuori perché comincia a grattare, e a distruggere, le porte. Che felicità trovarla a ogni ritorno, a colmare in parte l’enorme vuoto lasciato da Mafi e Brumi, che non sono più con me da cinque e tre anni.

Grazie dunque Mentina, ‘mia’ gatta ponzese.

 

Luisa Guarino

 

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