Con uno Stato assente, e quando presente avvertito come nemico, quale senso delle Istituzioni poteva mai nascere nei già disgregati Ponzesi? E’ già tanto che sul nostro territorio non si sia formata una sorta di antistato organizzato, sul modello della camorra. La descrizione che Tricoli fa dei ponzesi, alla metà dell’Ottocento, è nel complesso lusinghiera:
“Anno avversità alla vendetta, al sangue e respingono ogni delinquenza, per cui rarissime le criminali, e quelle stesse inferiori, che si riducono sempre a lievi offese, vengono immediatamente rimesse senza rancori, restando soddisfatti in abbassare il male umore colla maldicenza”
Fossimo stati inclini alla violenza, con quei buoni maestri che abbiamo avuto per tutto l’Ottocento, le sorti di Ponza oggi sarebbero ben peggiori.
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Con l’arrivo del nuovo secolo le cose non cambiano molto. Nel 1911 vanno via i coatti e giungono i deportati libici.
Nel novembre del 1910 c’erano state le elezioni, e venne eletto sindaco Vincenzo Vitiello, ma il 15 dicembre del 1911 la sua elezione fu annullata dal Consiglio di Stato su ricorso del cugino Gaetano Vitiello, non per turbativa d’asta o abuso d’atti d’Ufficio, ma per brogli elettorali! La litigiosità dei ponzesi e il non rispetto delle regole più elementari di democrazia erano già diventati proverbiali. E così il Prefetto inviò sull’isola il Commissario Prefettizio Claudio Rugarli.
Poi la guerra e l’avvento del fascismo, la colonia confinaria e il campo di Concentramento, l’occupazione Alleata fino al 1945.
Con il fascismo lo Stato c’è ed è presente. In camicia nera e col manganello. Restrizioni e soprusi. Ma anche una forte ideologia tendente ad esaltare la nazione e lo Stato Etico fascista. Nasce l’orgoglio dell’italianità e dell’appartenenza alla stirpe Latina. Anche a Ponza le strutture organizzative del Regime funzionano. Figli della Lupa, Balilla, Avanguardisti, Piccole Italiane, Giovani Italiane, GIL. La gioventù è tutta organizzata in attività educative, sportive e paramilitari. I ponzesi per la prima volta sentono di appartenere ad una nazione, ad uno Stato, nonostante la durezza del regime. Ma è solo ideologia, effetto della propaganda. Infatti l’individualismo radicato nei ponzesi non svanisce affatto.
Con l’avvento della democrazia e della Repubblica queste organizzazioni, durate il breve periodo di una ventina d’anni, svaniscono nel nulla e così il senso dello Stato. La Chiesa acquista un nuovo e più possente ruolo, grazie anche alla personalità spiccata del parroco Luigi Maria Dies. Il dopoguerra sono anni di ricostruzione. A partire dall’edificio della chiesa della SS. Trinità, che viene ampliato. Diviene ben presto una sorta di simbolo di accoglienza e di unità. Ma Ponza adesso è ancor più sola e abbandonata. Il simbolo di quest’abbandono sono i locali della Torre (che ospitava la Milizia e la caserma dei Regi Carabinieri) e i Cameroni dove erano ricoverati i confinati.
Nel 1947 la Caserma Torre è già ridotta in cattive condizioni: asportati gli infissi, divelte le mattonelle dei pavimenti e le tubature dell’acqua. Anche nei Cameroni erano stati asportati gli infissi e dal soffitto filtra l’acqua piovana, e le celle del pianoterra restano permanentemente allagate.
La democrazia, appena affermata, doveva ancora crescere, la politica muoveva con incertezza i primi passi; i partiti si andavano organizzando.
In quegli anni cruciali Dies non si perde d’animo, si dà da fare e diventa punto di riferimento per la comunità. Chiede i locali della Torre e dei Cameroni al Ministero dell’Interno. Il ministro Scelba, nel marzo del 1947, glieli concede in affitto per tre anni “per adibirli a scuola nautica privata e ad opere educative per la gioventù. Egli (il Parroco Dies) attualmente dirige detta scuola in un angusto locale annesso alla sua Chiesa”.
Successivamente sulla Torre apre la scuola di Avviamento Professionale e per la prima volta i ragazzi di tutte le contrade dell’isola si incontrano e si conoscono, cominciando a dar vita ad una comunità che impara a stare insieme, a conoscersi, a fare le stesse cose, ad acquisire gli stessi concetti, gli stessi valori, seppur con fatica. Questa scuola rimase operante fino al 1962 quando si trasformò in Scuole Medie Statali inferiori, allocate nei Cameroni.
Dies intanto rilanciava la vita dell’Azione Cattolica, facendola diventare punto di aggregazione e di crescita morale per tutti i giovani della Parrocchia. A Le Forna il parroco don Gennaro Sandolo faceva lo stesso.
Intorno alla Chiesa comincia a prender forma finalmente una vera Comunità con valori saldi e precisi: la Religione, la Famiglia, la Scuola, il lavoro, l’autorità forte dello Stato, il rispetto della Legge. L’educazione dei giovani è messa al primo posto. Nasce finalmente il Ponzese. La società prende forma. Ma ecco una nuova ondata emigratoria verso le Americhe, che durerà fino alla fine degli anni Sessanta e che ridurrà fortemente il numero dei residenti.
Ma contestualmente si materializza un fenomeno del tutto nuovo: il turismo.
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Cominciò discreto e in punta di piedi il turismo a Ponza. L’incontro dei villeggianti (si chiamavano così) con i ponzesi fu affabile e pieno di cortesia. Come nel mondo antico ellenistico, i ponzesi offrivano all’ospite trafelato l’incontaminata isola, l’intatta xenìa, il dono dell’ospitalità.
Sentite come Elio Battistini su “Il Giornale d’Italia” del 12 Settembre 1958 descrive Ponza:
“(…) allorché, sceso a terra, ti imbatterai subito in un Ufficio Turistico dove, a tua richiesta, ti daranno l’indirizzo di una famiglia ponzese che, mancando nell’isola gli alberghi rituali, ti ospiterà come nella storia di Omero, nella propria abitazione. E non ti chiederà lo scopo del tuo viaggio, chi sei, come ti chiami, quanto ti fermerai e in che misura (e se vorrai) compensarla, di questa sua libera e spigliata ospitalità.
(…) Questo ti accade nelle prime ore del tuo sbarco nell’isola, che non è ricca, non è estremamente confortevole, non ha pretese mondane: ma è semplice, silenziosa, gentile e ospitalissima.
Poi, quando (…) ti avranno spiegato che queste abitazioni ponzesi non chiudono neppure di notte i battenti degli usci sulla strada e dei singoli appartamenti (per cui tu potrai rincasare quando ne avrai voglia e nella più completa discrezione da parte di chi ti ospita): potrai cenare in una delle tante trattorie dell’isola.
(…) La fantasia di questa gentilissima popolazione è tutta liberata nel mare (come nel mondo di Ulisse), da dove ciascuno trae l’illusione continua, epidemica di una esistenza libera, e da dove, soprattutto, ritrae i comuni mezzi per la propria esistenza quotidiana.
(…) Oggi Ponza, così com’è, è una terra ancora innocente, e perciò benefica, per tutti quegli spiriti inquieti e stanchi che vi approderanno. Domani, quando vi fossero approdati a colonie i “parvenus” gli “snobs” e i sofisticati queste taumaturgiche virtù che appartengono al costume naturale della popolazione (che fra l’altro ha il culto della pulizia) si trasformerebbero in un ricordo che niente e nessuno sarebbero in grado di resuscitare.
Ma a questo punto ci interessa di mettere in chiaro i particolari motivi del fascino che esercita ancora questo luogo finora ignoto o addirittura temuto (per il suo isolamento e per la sua elementarietà) da tutti i “vitaioli” che vanno in cerca di strabilianti e spesso stupide e grottesche avventure di viaggio e di soggiorno.”
Nascono le prime attività turistiche: trattorie, ristoranti, affittacamere, qualche albergo. Ma l’intelligenza di Dies seppe vedere lontano, e come una scolta dall’alto della sua altana, scrutò l’orizzonte e lanciò il grido d’allarme sugli immediati effetti collaterali del turismo: erano arrivati a Ponza i primi bikini, con dentro le francesi, come Brigitte Bardot.
Proprio nell’estate di quel fatidico 1958, sulla Torre (ormai sottratta a Dies e venduta a Baridon) il prof. Silvio Federico Baridon, titolare della cattedra di Francese all’Università di Torino, inaugurò un “Centro estivo di cultura Mediterranea” aperto solo a studenti superiori e a professori di tutte le Università del mondo. Affluirono a Ponza giovani da ogni parte del globo, e arrivarono le mitiche francesi. In bikini. La gioventù del luogo si stranì e si disunì. Cambiavano il concetto di pudore e la morale.
Nel settembre di quell’anno sul “Bollettino di San Silverio di Ponza” Dies scrive un articolo di fuoco contro la nuova “costumanza”, intitolato “Segni di decadenza”, in cui si legge:
“Quando un edificio mostra piaghe d’intonaco è fatiscente. Quando un albero intristisce, a vista, accartocciando le foglie, è prossimo a morire.
Così quando l’uomo intelligente rompe gli argini dell’inibizione della volontà e spezza le briglie del suo corpo-somaro, la decadenza è in atto ed egli accelera la fine, per sé e per gli altri. A questo pensavamo vedendo quel crimine di moda estiva sulle spiagge nostre e centrali e l’impunita provocazione femminile per le strade e sui pubblici mezzi di locomozione. Ma si è pazzi o si è criminali?”
Chissà cosa direbbe oggi Dies, a proposito di buon costume.
Ma a noi bambini quel turismo gioioso e ancora discreto piaceva, eccome! Quando alle 11 arrivava il piroscafo da Anzio, eravamo tutti lì a gareggiare per strappare i bagagli ai turisti e portarli fin sopra gli Scotti, o sulla Dragonara, quando ancora non esistevano i taxi. Ci caricavamo i pesanti valigioni (più grandi di noi) sulle spalle, e come tanti piccoli e gracili sherpa c’inerpicavamo ansanti e trafelati per l’erta. Le cento lire di mancia ci sembravano un compenso enorme, e di corsa dietro alla Caletta a tuffarci nel mare pulito per rinfrescarci e far esplodere la nostra vitalità. Con quelle cento lire la domenica andavamo al cinema di don Michele Regine a vedere “La tigre di Mompracem” con Steve Reeves.
E poi la gara alla punta del molo ad ormeggiare i motoscafi in arrivo: in dieci, in quindici, a sporgerci dalla banchina per afferrare la cima, con qualcuno che inesorabilmente ruzzolava in mare.
Era il 1965, lo ricordo. Fu allora che il mondo cambiò. Noi giocavamo alla punta del molo, davanti al Bar S. Lucia, dove la banchina (non ancora manomessa) era uno splendido salotto che degradava in mare, a tuffarci in acqua per non far perdere la schiuma e a fare le zumpezzate dal bompresso del “Papà Vincenzino” affiancato al molo. Un giorno venne un marinaio della Capitaneria di Porto e ci disse che da quel momento non potevamo più fare il bagno alla punta del molo, perché doveva arrivare l’aliscafo da Anzio. Su di noi scese la notte.
Cominciava il tempo dei “divieti”. Ci sentimmo privati della nostra libertà e del nostro territorio, della nostra innocenza, della nostra infanzia. Era il prezzo che noi bambini, per primi, dovevamo pagare al “progresso”. Poi, col tempo, ci toglieranno anche la Caletta e tutte le altre spiagge; poi le banchine; poi i marciapiedi, infine l’anima. Sempre in nome del “benessere” e del “progresso”.
In quella stessa estate aprì il Grand Hotel Chiaia di Luna. Con molta enfasi Giuseppe De Luca, su “Ponza Mia”, presentò l’evento: “Oggi finalmente possiamo ammirare in tutta la sua bellezza una costruzione che si estende su un’area di 4.000 metri quadri. (…) Fra l’Hotel Chiaia di Luna e il complesso delle attività turistiche dell’isola sarà necessaria una stretta collaborazione. Questa collaborazione è già cominciata con l’istituzione delle linee di aliscafi che collegano Ponza direttamente con Roma via Fiumicino.”
Cominciava un altro turismo, un altro mondo, un altro tempo, un’altra Ponza.
Prendeva forma la funesta profezia di Dies.
Ma il peggio doveva ancora venire.
Gino Usai
[Ponza è un’isola (3) – Continua]
Pasquale
10 Febbraio 2012 at 11:41
Lo “sherpa”
Caro Gino
I tuoi pezzi, molto pregnanti, mi inducono al ricordo e, di conseguenza, alla riflessione. Dovremmo tutti, ma proprio tutti, partecipare a questo “rito”, dando ognuno, per la propria esperienza, il proprio contributo, senza remore. Ti racconto.
Mia madre soleva dire che ero uno “sfruscione” poiché quando (molto, molto di rado) riuscivo a racimolare un po’ di soldi (regalati) così li spendevo, senza pensarci su due volte, nell’ordine: cinema, Monello, Intrepido, Topolino, figurine, palline, noccioline, nella migliore delle ipotesi qualche “pastore” per il presepe, quando non li giocavo a “zicchinetto”. La prima volta feci lo “sherpa” a due signore o signorine. Mi dissero che avevano prenotato da Abbenante a S. Antonio. Mi ritenni fortunato sia perché non era distante dalla nave, sia perché il percorso era tutto pianeggiante. Arrivati lì però quello, con mio disappunto, disse che aveva tutto occupato e mi indirizzò da una persona che abitava nei pressi del cinema di Barbett’, forse da ‘Luisa’. Anche lì: nulla. Insomma gira e rigira trovammo posto nei pressi di dove oggi c’è villa Ersilia. Le due donne contentissime, ma vedendomi affaticato e sudato, vollero che fossi io a decidere il prezzo. A dire la verità ero un po’ imbarazzato e mi schermivo, ma loro insistettero. Non ricordo quanto chiesi, ma una cosa ricordo molto bene: prima di spendere quei soldi mi chiedevo se fosse stato meglio questo o quello; ci ho pensato su tantissime volte. Quel giorno capii cosa vuol dire “mangiare il pane con il sudore della fronte”. Ciao – Pasquale