di Gianni Paglieri
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Aveva imparato la pazienza e la solitudine, aveva imparato a stare solo con se stesso, con i suoi pensieri, la sua poesia, i suoi desideri, i suoi sogni, ma il momento che più amava era la sera, quando ad occidente l’orizzonte ancora si staglia nitido nel crepuscolo che sta per soccombere alla notte, e ad oriente già brillano le prime stelle, e l’Ufficiale di guardia, sestante alla mano, cerca la conferma della rotta e della posizione della sua nave.
Aveva calcolato molte volte le coordinate celesti delle stelle, aveva imparato a riconoscerle, a ritrovarle nell’immensità del cielo che imbruniva, sia che si trovasse a navigare nell’emisfero settentrionale che in quello meridionale: ne calcolava la posizione approssimata, l’azimut e l’altezza, le individuava e ne memorizzava la posizione sul quadrante del cielo e, così facendo non le dimenticava più. Era in grado di riconoscerle anche se facevano capolino tra le nuvole in fuga, oppure all’oscurarsi del cielo nel crepuscolo non appena la loro luce cominciava a brillare nel cielo fattosi scuro; ne misurava l’altezza poi calcolava le loro coordinate vere che confrontava con quelle osservate fino a tracciare le rette d’altezza e nel loro incontro leggeva la posizione della nave e correggeva la rotta.
Le stelle del cielo erano state le sue compagne preferite nelle lunghe navigazioni, e quando venne promosso Comandante mantenne l’abitudine di recarsi sul ponte di comando, la sera, al crepuscolo, quando l’ufficiale, col sestante, cercava le stelle e ne gridava i nomi antichi e fantastici, i gradi i primi e i decimi del loro angolo verticale sull’orizzonte, prima che lo nascondesse la notte. Poi mentre nella sala nautica l’Ufficiale completava i calcoli, se ne stava sull’ala di plancia ad osservare il traforarsi progressivo del cielo di infinite stelle. Non aveva mai smesso di stupirsi e di commuoversi al nascere della notte, quando il cielo, poco alla volta, si svuota di luce e pare lentamente morire: Ogni volta si ripeteva il miracolo e pareva che qualcuno rovesciasse, da una distanza infinita, in uno spazio nero ed infinito, una infinità di stelle, che, dapprima, apparivano tremule e timide, e poi, poco alla volta, si facevano più vicine, finché col crescere della notte, brillavano sempre di più, dando vita, con il loro palpitare a quell’oscurità misteriosa. In poco tempo la nave era circondata da una miriade di stelle che parevano occhi, imperscrutabili alcuni, altri ammiccanti, scherzosi e misteriosi, mentre la nave, procedeva sicura. Le stelle diventavano sempre più brillanti, come se la notte stesse indossando, maliziosa e lenta, un abito elegantissimo, scintillante di gioielli; poi finalmente diventava padrona del mare e del cielo rubando per sé il sogno dell’orizzonte e i colori del mare che il tramonto aveva appena dipinto, ed era la notte, che, per quanto fonda possa essere, sul mare ha sempre una sua misteriosa luce. Col crescere dell’oscurità l’uomo di vedetta, sull’ala di plancia, diventava una indistinta macchia nera, che, con il rollio della nave, a tratti si stagliava, nera e immobile, nel cielo ancora illuminato, per perdersi, subito dopo nella scura ombra del mare.
L’Ufficiale di guardia, una volta terminati i calcoli e rifasata la rotta, iniziava a passeggiare in silenzio, avanti e indietro sul ponte di comando, fermandosi ogni tanto per meglio scrutare l’orizzonte, oppure sostando un attimo accanto alla bussola che, in quel momento gli illuminava il viso pensieroso; a volte, poco prima del prevalere della notte, un gabbiano o un albatro usciva improvviso dall’ombra cupa che pareva stagnare sopra il mare, intrecciava voli irregolari e frenetici e, così facendo, pareva cucire, con i suoi voli, l’orizzonte al cielo, fino a farli diventare una cosa sola; poi, così com’era comparso, improvviso, scompariva, forse fermando il suo volo sul mare, forse volando a seguire la nave, per ricomparire il giorno dopo, oppure, chissà, volava lontano, magari verso lontane scogliere battute dal vento, assediate da schiuma bianca e frastagliata.
Ogni volta che guardava il cielo si ricordava di quel Comandante che, molti anni addietro, lui giovane ufficiale, l’aveva preso così a ben volere che, sera dopo sera, in navigazione, gli aveva insegnato a riconoscere le stelle e il profilo delle costellazioni; quell’uomo di mare, che a lui era sempre sembrato molto vecchio, pareva tramandargli misteriosi segreti quando, con il braccio teso ad indicarle, nominava le costellazioni principali, e ne tracciava lento e preciso i contorni. Doveva amare moltissimo le stelle, quell’uomo così tranquillo, che, una volta, il viso perduto nella notte gli aveva detto con serietà: “Le costellazioni sono il tentativo che l’uomo ha fatto per mettere un poco d’ordine nell’apparente caos del cielo notturno … noi non le vediamo ad occhio nudo ma, tra quei gruppi di stelle, alle quali una fantasia divina ha dato una forma e l’uomo, osservandole, un nome ed una storia, ci sono molte altre stelle, un infinito di stelle, un’infinità di stelle, di storie, di miti e di leggende, c’è tutta la storia e l’immaginazione dell’uomo… potrai navigare cent’anni e sempre, fino all’ultimo giorno di navigazione, alzerai il tuo sguardo verso l’alto, perché, sempre – e qui la sua voce si era fatta misteriosa – sempre ci sarà ancora una stella da riconoscere, da ricordare, da non dimenticare, da cercare, da ritrovare…”
Quando giunse il suo ultimo imbarco, e lui l’avrebbe sostituito, gli mostrò la piccola stella puntiforme, appena visibile ad occhio nudo, vicina alla stella centrale del timone del Gran Carro, e battendogli una mano sulla spalla gli disse che il giorno in cui i suoi occhi non l’avrebbero più potuta vedere avrebbe dovuto lasciare la nave e il mare per tornare a casa definitivamente.
“Da quel giorno – gli disse ancora – le stelle, se le avrai conosciute, amate, ammirate, rimarranno per sempre nel tuo cuore, e spesso torneranno nella tua mente per parlarti d’immensità, di bellezza, di poesia…per questo devi imparare a riconoscerle, devi imparare i loro nomi, le grandi storie che esse ricordano”.
Non lo vide mai più, né mai seppe se ancora stesse aguzzando lo sguardo per vedere la piccola stella del timone del Gran Carro. Di quell’uomo un poco burbero ma sempre gentile e sempre disposto ad ascoltare, gli restò il libro che gli aveva regalato, perché potesse conoscere qualcosa di più delle stelle, un libro che portò sempre con sé come fosse un libro di preghiere.
Gianni Paglieri
[Il marinaio e le stelle. (2) – Continua]