di Vincenzo Ambrosino
Ho capito e condivido la volontà di Giuseppe Mazzella e di Antonio Usai di portare alla luce una parte della loro esistenza, della precedente esistenza vissuta dal proprio padre.
Quando si diventa più vecchi ci si guarda dentro e affiorano dal ‘sottosuolo’ ricordi, immagini che hai il bisogno di portare alla luce, di condividere. Il tuo carattere viene anche da lì, lo riconosci nei tuoi stessi comportamenti, nel tuo mutismo, nel tuo modo di stare al mondo; e quella faccia, con quelle rughe e quel sorriso da dove vengono? Eppure come sembravamo diversi, quando tu, giovane presuntuoso non capivi e lui già stanco e in fretta invecchiato ti guardava smarrito. Come sembravamo diversi, quando lui affogava la sua amarezza in un bicchiere di vino e tu non capivi.
Ho capito e comprendo la passione di Antonio nel cercare in tanti libri un nome, mettersi sulle orme di quel giovane impaurito, sperduto, pronto ad ubbidire, lontano da casa a Natale: la madre che prepara da mangiare e c’è del fuoco che riscalda e soprattutto c’è l’amore di una famiglia.
Non c’è divisa in questo racconto, non vedo divisa in questa investigazione ma solo passione di un figlio alla ricerca delle sue origini genetiche, culturali, umane.
Come capisco e condivido la volontà di Giuseppe che vuole onorare un padre in un’isola che non innalza monumenti e facilmente dimentica. Quanto campa un uomo? Cent’anni sono una nullità figuriamoci cinquantasette e quante cose può fare un uomo per poter essere ricordato dai posteri.
Ecco il bisogno di fare il punto di esistenze, cercare le trame, i bisogni, i sogni di piccoli uomini, che non avranno fatto la storia, ma sicuramente nel loro piccolo hanno vissuto. Hanno onorato la famiglia, hanno saputo soffrire, hanno caratterizzato in un modo o nell’altro il loro breve passaggio: hanno saputo crescerti sano e riconoscente.
Eugenio sarà stato anche un eroe, Gennaro sarà stato anche un generoso cultore della ponzesità, ma quello che per me ha rilevanza è il generoso, coraggioso ricordo dei propri figli.
Tutti dovremmo farlo, non tutti allo stesso modo, ognuno a modo suo, come con commozione a modo mio lo sto facendo io, parlo degli altri padri per parlare del mio, io tutto preso ad impormi con i miei figli, io che oggi ho la fortuna e la responsabilità di fare il padre.
Pochissime parole ci siamo scambiati in vita, non ha mai amato raccontare la sua esistenza, la sua personale guerra, non ho avuto molte cose in eredità, ma anche se sembravamo diversi mi ritrovo oggi a comprenderlo, ad essere non suo figlio ma suo amico. Forse non ha un amico con cui potrebbe giocare una partita a dama, lui era bravo e forse potrei passare più tempo con lui nascosto dietro la tenda, da soli a fare il cruciverba, in silenzio e nel pensare la soluzione guardarci negli occhi e sorridere.
Vincenzo Ambrosino
polina ambrosino
14 Gennaio 2012 at 13:58
Cresciuti in fila indiana
capelli rasati e vestiti rivoltati
i nostri padri.
Caldarella in spalla a 8 anni
fino al Semaforo
dove nonno aspettava
il pane quotidiano.
Piccoli uomini
mai visti i giocattoli.
Dovere e rispetto:
a scuola il maestro Tatore
severo bacchettava
chi sgarrava e non sapeva.
Poche parole
solo sguardi
dal nonno onnipotente:
attenti a non far niente…
I nostri padri,
a 18 anni in guerra
quella vera
da dove tornavi, miracolato, magro come un chiodo e malato.
Niente vi hanno dato
nessun grazie dallo Stato rispettato fino in fondo
fino in fondo vi ha dimenticati.
Ora riposate sul mare della vita
e quello è certo il posto più bello che ci sia
nell’isola del cuore
non quella dell’origine
lasciata per amore
di una Ponza mai tradita.