di Gianni Paglieri
Siamo orgogliosi di presentare ai lettori di ponzaracconta Gianni Paglieri, navigatore-scrittore o scrittore–navigatore, di cui abbiamo apprezzato il racconto che qui di seguito presentiamo (a puntate) e poi abbiamo contattato direttamente.
Ci ha scritto Gianni: “…il racconto ‘Il marinaio e le stelle’ racconta un poco della mia vita; ho navigato molti anni, ho comandato navi mercantili e soprattutto nel corso delle navigazioni ho cominciato a scrivere. Ho pubblicato tre libri, ne ho ultimato un quarto e da un po’ di tempo mi sto impegnando a ‘raccontare’ il mare. Scrivere è il mio passatempo preferito e occupa gran parte del mio tempo”.
Il mare
sorride in lontananza.
Denti di spuma
labbra di cielo
(Federico Garcia Lorca)
Amava il mare, sognava di comandare una nave, e quando decise di iscriversi alla scuola nautica, la sua determinazione colse di sorpresa i genitori che fecero di tutto perché cambiasse idea. Quelle due semplici persone non seppero trovare una risposta persuasiva alle parole ferme del figlio che, nel difendere la sua decisione, non volle confidare loro la magica seduzione e l’incantamento che provava quando guardava l’orizzonte. Certe sere gli sembrava si sciogliesse nel cielo ed il mare non aveva più limiti; altre volte si stagliava nitido, come un confine preciso, anche se lontanissimo, una linea estrema da varcare, invito e sfida ad un tempo.
Per quel ragazzo il mare era orientamento, sicurezza, sogno: lo vedeva dalle finestre di casa, gli compariva davanti, all’improvviso, in fondo ai vicoli che conducevano dritti alla spiaggia, in certe ore del giorno sembrava uno specchio d’argento, poi lo vedeva travestirsi continuamente di colori, fino all’apoteosi del tramonto. Nelle notti calme e serene bastava il riflesso di una stella, il riverbero di una lampara, la sciabolata di luce del grande faro, la luna, o una nave lontana perché apparisse come una cosa viva, sempre in movimento… pensava che il mare non si addormentasse mai.
Da bambino aveva ascoltato molte volte la sua canzone, adolescente aveva imparato a confidarsi con lui. Aveva prestato il cuore alla sua voce, a volte solo un lieve mormorio o un sospiro, altre volte uno strepitare di voci diverse o un soffiare agitato di tempesta che rendeva acuto il suo desiderio di partire, di andare incontro al mondo.
Nei giorni di fine settembre, quando il mare, dopo le calme dell’estate, ritornava a vivere con le prime mareggiate, si attardava sulla spiaggia in attesa che la notte avesse inizio, e guardava verso il largo finché vedeva l’orizzonte confondersi con l’oscurità e così poteva sognare di trovarsi su di una nave, in navigazione, in mare aperto.
Quando il vento soffiava così forte che pareva portarsi via anche i pensieri, si recava al faro e di lassù guardava le onde assediare la scogliera: il mare era increspato di schiuma strappata, la salsedine rendeva l’atmosfera nebbiosa, e il desiderio di trovarsi in mezzo a quelle onde, di navigare oltre l’orizzonte diventava bruciante.
Quando il sogno si confondeva con il desiderio, si rifugiava tra gli scogli e mentre le onde si frantumavano in cupi rimbombi, parlava a voce alta e raccontava sogni e desideri; poi cercava di cogliere una risposta in quell’eterno mormorare gli giungeva una canzone suadente che parlava di libertà e di avventura.
Terminata la scuola, trovò imbarco come Allievo Ufficiale e navigò al di là del Capo di Buona Speranza, in India, oltre Malacca e Singapore, nel mare della Cina, in Giappone, tra le isole del Pacifico. Restò su quella nave per quattordici mesi e di quel primo viaggio portò sempre nel cuore il ricordo di una tempesta violenta lungo le coste del Sud Africa e nel sangue quello più riposante e conturbante del corpo di una donna somala incontrata ad Alessandria d’Egitto. Per molto tempo, nella solitudine dei turni di guardia, il corpo scuro ed accogliente di quella donna gli tenne compagnia, finché cedette ad altri sorrisi, che si mischiarono con altri ricordi e le tempeste finirono col non fargli più paura, anche se per lungo tempo continuò ad avvertire dentro di sé lo stesso meravigliato sgomento della prima volta.
Quando tornò a casa aveva nella sua valigia l’immagine stropicciata di una Madonna dal viso dolce, che, dall’alto di un cielo stellato, guardava amorosa una nave in navigazione.
Quell’immagine, regalatagli da un marinaio che non incontrò mai più, la collocò all’interno della cassetta del suo sestante assieme alla fotografia di una giovane donna dai capelli lunghi e dal viso dolce.
Negli anni che seguirono conobbe altri mari, altri paesi e trascorreva lunghi periodi lontano da casa ma quando tornava, i suoi amici avevano preso altre strade e si erano anche un poco dimenticati di lui. Solo una gentile ragazza lo aspettava e ne desiderava il ritorno, la stessa della fotografia che teneva assieme all’immagine della Madonna nella cassetta del sestante, la stessa gentile ragazza che qualche anno dopo diventò sua moglie.
Si scrivevano lunghe lettere nelle quali lui raccontava la sua impaziente attesa, il suo contare i giorni che mancavano al ritorno, lei la sua serena quotidianità. Ad ogni ritorno si amavano come se ogni volta fosse l’ultima e quei baci e quelle carezze dovessero restare un ricordo incancellabile… ma quella poesia ardente non riuscì mai a nascondere fino in fondo l’ansia incombente della prossima separazione.
Il suo cuore prestava orecchio a due voci ugualmente ammalianti, le accoglieva entrambe, ma non cedeva mai alla seduzione della scelta. Era come se avesse accettato che la sua vita si svolgesse tra due poli di attrazione, da una parte il mare, le lunghe navigazioni, la tensione, l’impegno morale e fisico, e dall’altra quella dolce fanciulla, porto sicuro, serenità, amore, che ad ogni sua partenza riprendeva a tessere, paziente, la tela del ritorno.
Amava tutto del suo lavoro, il mare era per lui spazio di libertà, la tempesta non lo spaventava ma neppure lo esaltava, e così imparava la pazienza, la sopportazione, il rispetto che si deve alle forze della natura.
Gli piacevano certe notti sul mare, lontano da ogni terra, notti incantate, magiche, quando le nuvole si rincorrevano nel cielo dove brillava una luna che aggiungeva mistero all’incanto. Notti inquiete nelle quali il mare pareva danzare e animarsi dal rincorrersi confuso di tante piccole onde accarezzate da un vento fresco che le vestiva di schiuma. La nave rollava e beccheggiava, pareva muoversi più veloce del solito, come se all’improvviso l’avesse presa l’ansia di arrivare al più presto a destinazione. Il mare si torceva, si lacerava, si riempiva di spruzzi e di riflessi d’argento che si perdevano rapidi nell’oscurità e che un guizzo di luna faceva ricomparire poco lontano. L’ombra delle nuvole che correvano nel cielo spinte dal vento giocando a rimpiattino con le stelle, rendeva vivo l’incresparsi del mare e popolava la notte di fantasmi. La luna, ogni tanto, compariva nel suo bianco splendore, in uno squarcio di cielo senza nuvole e pareva placare quello scompiglio poi si nascondeva ancora e il mare si copriva di mistero. Erano notti bellissime in cui ogni nostalgia, ogni desiderio di ritorno, di persone e luoghi cari, scompariva davanti a quella maestosità e a quell’arcano.
Nelle notti calme e lente, nelle lunghe ore di guardia, aveva imparato a stare solo con se stesso, in silenzio, sulla plancia, al buio, e lasciava che il pensiero volasse lontano mentre i ricordi che tornavano prepotenti e suadenti lo inducevano a cedere al richiamo del ritorno.
Gianni Paglieri
[Il marinaio e le stelle. (1) . Continua]