di Sandro Russo
In viaggio per le isole dei nostri mari, e più in generale sulle coste del Mediterraneo, si ha spesso la sensazione di spartire una identità comune.
Non è tanto una valutazione razionale; non passa per un’indagine storiografica – che pure potrebbe dimostrare fondamenti comuni -; né tiene conto dei confini geografici. Spesso le lingue sono diverse, o incomprensibili; ogni evidenza sembrerebbe indicare una estraneità. Ma la ‘sensazione’ è d’altro che si nutre: di somiglianze invece che di differenze; di emozioni indefinite, di ‘qualcosa nell’aria’. Sono profumi e sapori; un colpo d’occhio sulla vegetazione, sui volti della gente. O anche il fruscio del vento tra gli alberi – i pini di Aleppo… i cedri del Libano! – Come ricordi lontani, echi di altre vite…
Le popolazioni che hanno colonizzato le coste del Mediterraneo sono state tra loro diverse; alcune hanno troppo temuto o spregiato il mare, da cui pure venivano, e si sono appartate nell’interno, diventando contadini e pastori. Altre, spinte dal bisogno, sono diventate genti di mare. I grandi navigatori del bacino del Mediterraneo hanno scritto parti importanti della nostra storia, e la loro eredità di tanto in tanto riaffiora. Ne rimangono poche tracce nella vita di tutti i giorni, vissuta in superficie e alla rincorsa del nuovo; molte di più nel profondo delle culture, nei comportamenti ancestrali; nel linguaggio e nei suoni.
La copertina del libro di Benjamin Tammuz (1919-1989): ‘Il Minotauro’ (1989); Edizioni e/o (1994)
Il Mediterraneo è lo sfondo di questo romanzo di amore e di spionaggio di qualche anno fa, con i suoi misteri, gli odii millenari tra popoli fratelli, le migrazioni interne lungo le sue coste, il sole e il mare.
Dice uno dei personaggi del libro – il greco Nikos Triandaphilou – innamorato dell’idea della sostanziale comunanza dei popoli mediterranei:
“…le parole di una canzone greca, una canzone d’amore e di morte, una lunga storia raccontata su una melodia ripetitiva, composta da un ritornello infinito; un miscuglio ben dosato di musica liturgica ebraica, flamenco spagnolo, canzone napoletana e un flebile ricordo del lamento del coro dell’antica tragedia greca. In seguito avrebbe capito (…) che queste canzoni percorrevano tutto il Mediterraneo: che la loro origine è nei canti dei marinai fenici i quali, migliaia di anni fa, spingendo i remi e spiegando le vele, erano salpati dalla riva le cui acque ora lambivano il giardino della loro casa ed erano arrivati all’oceano; e in ogni posto avrebbero lasciato un segno, un ricordo, che nei secoli avrebbero fatto di questo mare l’anima della cultura. Ebrei, elleni, musulmani e cristiani si sarebbero incontrati e divisi, si sarebbero massacrati e poi avrebbero avuto nostalgia gli uni degli altri, e alla fine, uno dopo l’altro, sarebbero usciti di scena. Se ne sarebbero andati, per poi tornare, ciclicamente, in una terrorizzata fuga, tra grida di dolore e distruzione, nel bagliore dello scoppio delle navi da guerra in fiamme, nel lamento delle madri per i figli uccisi. Poi ci sarebbe stato un lungo silenzio, come se si levassero dalla tomba e ritornassero, nell’odore di agnello arrosto, nel suono di antiche melodie, in canzoni che si trascinano stanche, lunghe e disperate.”
[Da: B. Tammuz ‘Il Minotauro’; op. cit.]
Su questa stessa lunghezza d’onda si proporrà – in successivi articoli – un libro di Jean Claude Izzo: “Aglio, menta e basilico” (sottotitolo: Marsiglia, il noir e il Mediterraneo)…
E ancora… una sintesi poetica dell’essenza del Mediterraneo, eredità comuni e comunanza di genti – in un linguaggio che ha qualche parentela con il “sabir” di cui parla Simone Perotti nel suo commento alla poesia di Antonio De Luca (leggi qui) – attraverso una canzone: ‘Crêuza de mä’, di Fabrizio De André e Mauro Pagani, del 1984: cantata in dialetto genovese.
Alle prossime…
[Mediterraneo Grande Madre (1) – Continua]