di Gabriella Nardacci
Il venerdì santo, già dalla mattina presto si preannunciava triste e pieno di pensieri da raccogliere in totale intimità con se stessi.
Il cielo è stato nuvoloso fino a mezzogiorno. Quando un raggio di sole ha illuminato il vaso di ginestre, erano già le primissime ore del pomeriggio. Quel raggio di sole ci ha fatto alzare gli occhi al cielo e quasi è sembrato aver reintrecciato i fili con quella realtà, che per tutta la mattina, era stata accantonata.
Io e Ines, abbiamo avuto la sensazione di aver dato molto ai pensieri e alle faccende di pulizia : – Quanti ccose amm’ fatt’ …ne’ Cristì?
La temperatura era fresca e gradevole e il mare borbottava sottovoce con onde che solo nel cadere pesantemente sulla riva, sembrava scuotessero quella vita addormentata intorno.
Io e Giulia siamo uscite per spese. Avevo voglia di comprare qualcosa per Ines e Giuseppe da poter loro regalare durante il pranzo di Pasqua.
Ho comprato un gioiello per Ines e mi sono limitata a due bottiglie di vino pregiato per Giuseppe. Sapevo che avrebbe apprezzato.
È stata una serata improntata sul misticismo. Gradevole sulla pelle, era il maglioncino di lana sottile e il foulard grande di seta sulla gola era la barriera oltre la quale il leggero vento non passava.
La Madonna Addolorata usciva da una strada per raggiungere il suo Gesù morto. E’ strano come si pensi ai propri figli quando c’è la rappresentazione della Passione di Cristo (o almeno a me arrivano queste attinenze). Credo sia quello il “dolore assoluto”, quello che può provare una madre per la morte del figlio.
Il dolore per non poter fare nulla… L’impotenza di una madre – che quasi si è sentita onnipotente quando lo è diventata – ad aiutare il proprio figlio.
Diverso da ogni altro tipo. Dal dolore che dilania come quando finisce un amore …quello che fa adirare quando ti arriva un rimprovero non meritato… quello che ti isola quando ti senti in colpa …quello che ti bastona come quando di te si impadronisce la fatica …quello che ti umilia come quando sei costretta ad una supplica.
Il dolore assoluto si raccoglie in una frana che travolge l’anima fino ad uscire dai pori dopo aver assunto in forma di sangue.
Perché i figli son sempre piccoli anche quando stanno invecchiando al contrario dei figli che vedono invece i genitori diventare sempre più vecchi.
Di madri impazzite per la morte di un figlio ne ho viste molte ma di figli impazziti per la morte di una madre ne ho visti pochi.
U’ fucarazz’ ci riunisce tutti intorno. U’ fucarazz’ del Venerdì Santo non è il falò sulla spiaggia di quando si cantavano le canzoni di protesta e si aspettava l’alba sul mare. È un fuoco che dovrebbe apparire come luce purificatrice, e per alcuni più ‘buoni’ di me così sarà, forse!
Qualcuno si lamenta che non sono stati utilizzati solo gli avanzi di falegnameria per prepararlo; ognuno da dire la sua, in proposito… intanto tutti si sono raccolti lì intorno al fuoco, credo anche per scaldarsi un po’, visto che la processione si è protratta più del solito e ci si è infreddoliti.
U’ fucarazz’ divampa in fiamme centrali alte e fiammelle laterali squarciate dal vento. Questi fucarazz’ hanno anche un fascino misterioso e sinistro che un po’ ricorda l’inferno dantesco, un po’ le paure dei nonni nelle notti di luna piena quando si volevano tenere lontani i licantropi.
Ma le facce dei presenti s’illuminano alternativamente e io vi scopro solo preghiere inespresse e pensieri per la Pasqua, per le uova di cioccolato da regalare, la pastiera che sperano venga buona, le ultime spese e gli auguri ancora da dare.
Dentro la chiesa, sedute accanto a Gesù e Maria, un paio di donne anziane sgranano un rosario che sa di misteri dolorosi persi nel mistero della morte di un figlio che non ha voluto salvarsi come avrebbe potuto. Un uomo che ha permesso all’umanità di credergli o meno: la libertà di scegliere insomma.
E’ un pensiero rassicurante quest’ultimo, e forse per questo scappa una preghiera anche a me. Non so per cosa abbia pregato quella notte perché di cose da dire e da chiedere ne ho sempre tante. Mi capita spesso, però, che non riesca a dare loro una priorità e allora, alla fine, ne faccio di tutta l’erba un fascio…e lascio sia il Signore a decidere quale esaudire per prima.
Ines è accanto a Giuseppe che le ha offerto il braccio per appoggiarsi mentre Giulia si stringe al mio braccio e posa la sua testa sulla mia spalla. I suoi riccioli accarezzano la mia guancia e il fuoco ne evidenzia i colpi di sole che si è fatto fare.
– Ho sonno zia… ci vuole ancora molto?-
– Entriamo solo un attimo in chiesa e poi ce ne andiamo, Giulia e io – dico a Giuseppe che accenna di si con la testa mentre Ines dice che è stanca pure lei e che è il caso di andarsene tutti e quattro a dormire.
Così siamo entrati tutti e ciascuno di noi ha baciato i piedi del Cristo morto, mentre io ho guardato, in segno di comprensione, gli occhi acquosi di Maria che mi è sembrato avesse contraccambiato quel mio sguardo.
Poi non ricordo bene se ho depositato le mie preghiere quella notte. Certo è che, per un momento, non mi è sembrato giusto dare ulteriori problemi alla Madonna chiusa in quel dolore atroce.
Ora che mi ricordo non le ho lasciate in chiesa neanche a Natale perché non mi era sembrato giusto interferire con la felicità della nascita. E neanche alla festa di Ognissanti, vista l’ora tarda fatta a distribuire dolcetti ai bambini del condominio, che non mi ha permesso di andare in chiesa il giorno dopo. Il 2 novembre, poi, non era davvero il caso e alle Feste dedicate ai santi neanche, con tutte quelle ‘grazie’ che avevano da esaudire…
Dovrò rivedere un po’ dove sono andate a finire le mie preghiere. In quale ricorrenza io le abbia lasciate… O mi sono sempre sembrate tante e non ho avuto la capacità di scegliere quelle necessarie… Ma che pensieri! Che stia invecchiando davvero?
Camminiamo in silenzio io e Giulia, strette l’una all’altra, mentre Ines e Giuseppe ci seguono. Sento lo sguardo e i pensieri del mio pescatore.
Le stradine risuonano dei nostri passi e si sente l’odore del mare e anche un odore come di muffa. Le stelle sono alte nel cielo e vorrei parlare di esse, ma Giulia sembra cammini per inerzia e così ritorno dai miei pensieri silenziosi alcuni dei quali attinti ad intatte solitudini, ubriachi di sogni suggestivi.
Assorta in questi notturni preamboli al giorno che sta per arrivare, mi sono appena accorta di aver riportato Giulia a casa, sorreggendola che quasi dormiva e senza che io abbia faticato molto a camminare.
***
Il sabato mi sono svegliata con l’odore del pane. Un odore buono che sa di antico. Stavolta però sono stata io ad aprire la finestra affinché ne potessi annusare con più ampio respiro.
Ma troppo forte è stato il richiamo e allora mi son vestita e sono scesa per aiutare Ines che a sua volta si è scusata per il rumore ritenuto causa del mio risveglio.
– Ma no, sono scesa perché mi fa piacere aiutarti e mi dà gioia. È tanto tempo che non faccio il pane e con questo forno vien voglia di fare il fornaio… – dico.
Ines ride di gusto e mi dà quel tanto di pasta lievitata per fare una pagnotta. Certo le sue mani sono più esperte, ma me la cavo bene e seppur in ritardo rispetto a lei, le consegno la mia pagnotta pronta da infornare con tanto di croce sopra.
Ines è felice di avermi ospite. Mi sfiora persino l’idea che lei possa capire ogni decisione presa. Nessuna legge morale può obbligarci ad amare una persona che non amiamo e né lei né Giuseppe si amano più da tempo. Ma la gente ‘avrebbe mormorato’ e l’etica della responsabilità è una prassi molto seguita. La decisione è stata quella di agire con prudenza, trattarsi con gentilezza rispettandosi in dignità e valore.
– Abbiamo cercato di fare meno male possibile, cara… Un po’ di sofferenza per ciascuno e siamo arrivati fin qui… Questo avrei voluto dirle. Chissà perché, pensavo che Ines avrebbe compreso e mi avrebbe di certo risposto: – E’ stata la decisione più giusta, Cristi’…
– C’è da stendere la pizza rustica ora e dobbiamo mettere ancora gli ultimi ingredienti alla pastiera. Mi sarebbe piaciuto andare in chiesa per vedere come hanno addobbato l’altare maggiore. Magari quest’anno hanno messo i germogli di grano… Sai Cristina che molto tempo fa, al suono del Gloria, i bambini si toglievano dalle tasche gli uccellini presi nei giorni precedenti e poi li liberavano nell’aria? Era uno spettacolo suggestivo, sai?
Le rispondo che questa usanza mi commuove molto e la invito ad andare in chiesa.
– Vai pure in chiesa cara, io penso a finire tutto e aspetto Giulia che si svegli. Ines mi guarda interrogativa.
– Sono capace Ines… Le mie origini sono contadine, te ne sei dimenticata?
Giuseppe è sulla soglia della porta e ci guarda con aria assorta e misteriosa.
– Mi accompagni in chiesa? Sarò pronta in un minuto! – gli dice Ines scappando su per le scale.
Giuseppe si avvicina a me e mi dice: – Non stancarti troppo, amore. Che sofferenza non poterti dare neanche un bacio!
– Vai via marinaio… – rispondo
Mi sorride e mi da un pizzico sul sedere e se ne va rispondendo: – Eccomi! – al richiamo di Ines.
Li vedo allontanarsi e mi si inumidiscono gli occhi.
Io, vestale del pane, allungo lo sguardo sull’orto. Una quantità discreta di piantine, sono state trapiantate. Alcune le riconosco bene: pomodori e cetrioli, peperoncini e fagiolini e poi forse zucchine e melanzane. L’albero di pesco ha fiori rosa quasi sfioriti ma molte foglioline nuove e di un verde prato brillante. Addossate al muro, pale di ficodindia promettono un’estate abbondante di frutti. Non manca l’albero di limoni e le erbe aromatiche e una grande pianta di capperi e poi fiorellini come gerani, margherite, ortensie , ginestre e palme nane e un ficus solitario in un angolo quasi a guardia dell’orto.
Tutto curato alla perfezione e tutto in ordine. Lui è il mio pescatore contadino…
Anche il forno l’ha costruito lui ed è coperto da una tettoietta che si aggancia a quella della porta sul retro così che quando piove non ci si bagna, e si può fare il pane lo stesso.
Accanto al forno c’è una bella pietra in marmo bianco come piano di lavoro per Ines che ci impasta la pizza e le fettuccine e il pane e i dolci. A seguire, dopo il marmo, il posto per la brace all’aperto.
Una specie di barbecue? – chiedo io.
’A furnacèll’ ch’i craunèlle – mi traduce lui sorridendo.
Lui è il mio artista. Con quelle mani produce arte che fa bene alla mente, allo stomaco e all’amore profano.
Sospiro. Sorrido. Aspiro l’odore del pane caldo ch’è pronto: cotto, gonfio e biondo. E così canticchiando nello stesso ritmo con il quale ho scritto del pane, tolgo questo dal forno e metto la pizza rustica e a seguire, a forno moderato, la pastiera e un ciambellotto al cioccolato che ho avuto modo di preparare mentre ragionavo su lui.
Ultimata la cottura, riordino fuori con precisione e amore e porto tutto dentro dopo aver messo nella madia ogni prelibatezza.
Giulia è sulle scale con Tommy in braccio.
– Che buon odore zietta… – Tommy salta dalle sue braccia e Giulia mi si avvicina abbracciandomi e dicendomi – Non andare via… è bellissimo tenerti qui con me.
Restiamo abbracciate per un po’ e giusto il tempo per permettere alle mie lacrime di tornare indietro prima che lei se ne accorga.
– Va’ a lavarti che ti preparo una colazione strepitosa, piccola!
Il latte al cioccolato con il ciambellone ancora caldo, fa dimenticare a Giulia ogni malinconia. Sembra tuffarsi in quella tazza di latte con mugolii di piacere, mentre Tommy sulle sue pantofolone si lecca i baffi mentre assapora un pezzetto di ciambellone che lei gli ha dato.
Gabriella Nardacci
[A malapena si vede… Ponza (8) – Continua]