Gent.le Redazione di ponzaracconta
Invio l’ultima puntata di “A malapena si vede… Ponza”.
Ringrazio la Redazione tutta per avermi permesso di esprimere la fantasia – e anche parte di verità – sul sito, con questo racconto.
Naturalmente il racconto continua in ‘separata sede’. Ma ho ritenuto giusto fermarmi, perché fin qui Ponza è stata il teatro principale dove la storia si svolge.
Vi seguo sempre con attenzione e piacere.
Cordialmente.
Gabriella Nardacci
A malapena si vede… l’isola (6)
di Gabriella Nardacci
Certamente il mio trolley non si addice a una donna matura quale sono: rosa fucsia (fussia…come direbbero le mie alunne di 7 anni) a pois ‘verde pisello’, come si usava dire durante la mia infanzia e che oggi sarebbe invece più di moda chiamare ‘verde mela’…(la malizia ha cancellato il primo modo di dire…). Ma Giulia aveva messo in soffitta il trolley dicendo che non le piaceva più nonostante fosse ancora in buonissime condizioni ed è stato così ‘adottato’ da me.
La temperatura è giusta e anche il tempo permette gite fuori porta.
Mi siedo appena entro, a destra dell’aliscafo, precisamente sulle ali. Sarò una degli ultimi passeggeri ad uscire ma il ‘salottino’ è vuoto e il mare calmo non permetterà all’aliscafo di sobbalzare tanto, durante la sua corsa.
Da questa postazione non sarò distratta dalle chiacchiere della gente e potrò pensare con serenità cercando di fare un po’ di training autogeno al fine di mantenere quel certo autocontrollo della situazione prima di approdare sull’isola e di entrare nella casa di Giuseppe e Ines.
Giulia non sta più in sé dalla gioia. Mi ha spedito già sette SMS dicendomi del pranzo che sta preparando Ines, dicendomi del giro dell’isola che vuol farmi fare Giuseppe, dicendomi che non vede l’ora di abbracciarmi. Mi ha illustrato già il programma messo a punto con Giuseppe al fine di farmi divertire e di concentrare il più possibile la conoscenza dell’isola e dintorni nei quattro giorni di vacanza che mi son concessa.
Giulia dimentica sempre che il mio cuore va veloce già di per sé e che sforzi in più mi guardo bene dal farli, per non accelerare ulteriormente la sua corsa…
Avrà da battere veloce anche stando ferma… sull’isola di Ponza!
Socchiudo gli occhi. La vista dello spruzzo del mare lungo la fiancata destra dell’aliscafo, mi annoia. E’ sempre uguale e pare il grafico di un ecocardiogramma e a volte mi sembra di sentire anche quel suono di tonfo, di tuffo, di sciacquio che impressiona e fa paura, abituati come siamo a sentire il cuore che batte col suo ritmo tranquillizzante che ti ricorda che sei vivo e che tutto va bene.
Sì, il cuore gentile e tenero… mentre altro non è che un muscolo scontroso e duro che nasconde cavità buie e articolate, entrate e uscite da dove il sangue arriva e riparte e chissà…
Il cuore come una stazione, o un aeroporto o un porto da dove si arriva o si parte, da dove si ritorna o si fugge e chissà…
Il viaggio è tranquillo. Ho tempo di leggere un po’ di notizie sul giornale ma non sono concentrata e non faccio altro che guardare fuori alla ricerca di una sagoma su cui poggiare il mio sguardo che piano piano si liberi della foschia e della nebbia e che rischiari l’immagine che ora è grigia.
E’ passata più di mezz’ora e finalmente una sagoma appare alla mia vista. L’immagine, sempre più, si fa nitida e un’isola mi guarda. Due buchi neri che sono gli occhi di un grosso animale che galleggia pigro e spensierato sulle acque calme. L’aliscafo gli corre di lato e la sagoma, sonnacchiosa non sembra affatto curarsi di lui.
– E’ Palmarola – mi dice l’addetto ai biglietti che si è fermato a giocare col suo cellulare davanti la cabina dei comandi – tra un po’ saremo a Ponza -.
Credevo di essere calma abbastanza ma mi rendo conto che non è così. Un misto di gioia e nervosismo si concentra tra i miei pensieri che vengono scombinati, stravolti, travolti, schiaffeggiati. A malapena cerco di riordinarli. Sembrano bambini indisciplinati. Occorrerà arrivare, abbracciare e guardarsi negli occhi, per riportarli in ordine e mancano pochi minuti ormai.
Il tempo per allargare lo sguardo in fondo e Ponza appare distesa su un fianco come una bella donna mollemente abbandonata su un divano nei pomeriggi d’estate. Cubetti di abitazioni celeste, rosa, azzurro, giallo sui costoni e sulle piccole spiagge. Anfratti e rocce che si riflettono sul mare che diventa di un colore che non trova nome visto così di taglio… Avrà un altro colore il mare a vederlo dall’alto e anche a vederlo da una finestra o dalla battigia o da una barca. Alcune rocce sembrano di sughero e galleggiano sull’acqua mentre altre sono lisce come se fossero appena uscite da un bagno e sembrano rivestite di una seta leggera rimasta attaccata addosso.
C’è un sole che scalda fin nel profondo. E’ bastato uscire all’aperto per rendersene conto. La fiumana di turisti è già sulla scala in salita che porta sul “loggione” che si affaccia sul porto.
Credevo di trovare rumori di attracchi e puzza di benzina frammisti a odori di pesce e di cibi fritti e invece mi sorprendo a non sentire nulla di tutto questo.
Ma un odore familiare d’infanzia mi catapulta tra una nuvola di capelli morbidi e voluminosi nell’abbraccio dello tsunami Giulia che si getta a peso morto tra le mie braccia, stordendomi di risolini e baci e parole incomprensibili.
Lascio cadere il trolley e la stringo forte a me senza parlare ma inspirando forte il suo odore tra i capelli e il collo.
– Ma zia… dove vai in giro con quell’orribile trolley! – mi dice. Dico che era ancora nuovo e che di certo l’avrei ritrovato qualora lo avessi perso.
Ridiamo come bambine e allora Giuseppe si accosta e mi guarda con i suoi occhi neri, penetranti e umidi.
– Ciao Giuseppe…
– Ciao Cristina… benvenuta a Ponza – Mi bacia lievemente sulle guance rosse sussurrandomi appena – finalmente qui….
E da queste parole arriva a stordirmi l’odore del mare frammisto a odore di vita.
Giulia cammina avanti a noi con il suo-mio trolley (credo che le piaccia ancora, ma fa finta di giocare ad essere grande nel non volere più un trolley fussia a pois, e ogni tanto si volta a guardarci e sorride quasi da sembrare felice e maliziosa.
Giuseppe mi offre il suo braccio. Non ho messo scarpe comode e i tacchi s’incastrano tra le fessure dei grossi lastroni di pietra della pavimentazione stradale.
– Sei stanca? – mi chiede guardandomi le labbra.
– Ora non più… – gli rispondo guardandolo dritto negli occhi e stringendo forte il suo braccio.
Ines ci aspetta sulla soglia di casa. La vedo da lontano e mi appare ancora piacevole la sua figura. E’ snella, con un bel viso che s’illumina sorridendomi e mostra qualche ruga con eleganza leggera, a dimostrazione che invecchiare non vuol dire diventare brutti, mentre imbruttire senza sorridere forse fa diventare vecchi.
Mi viene incontro e mi abbraccia con calore. Profuma di orto.
Il terrazzino antistante la porta d’entrata della casa di Giuseppe e Ines, si affaccia sulla strada e poi sul mare. Un cartello informa che, in quel breve tratto di spiaggia, è vietata la balneazione, ma sotto lo sguardo vigile della mamma, due bambini giocano a toccare le onde e dapprima si tolgono i calzini e poi i pantaloncini.
Arrivano in casa i loro gridolini di piacere e un’aria festosa sembra rallegrare tutto l’ambiente dintorno.
Il terrazzino è a pian terreno e una porta-finestra blu, introduce in cucina dove il blu di alcuni particolari e di oggetti vari, appare in diverse sfumature che vanno dal blu oltremare al blu elettrico fino al blu notte.
Sulla madia, un grosso vaso di terracotta, contiene un fascio enorme di ginestre, illuminato da un fascio di luce che pare illuminarle come fosse una lampada. La luce penetra da una finestra blu con un disegno colorato sul vetro, che proietta strane forme sulla parete di fronte.
– Belle vero? Giuseppe le ha portate da Palmarola. Dice che lì, le ginestre, hanno colori luminosi! – dice Ines e mi guida su per le scale mostrandomi il resto della casa. Giulia mi fa vedere la sua stanza. Ha tappezzato una parete di tante foto e fra le tante ce n’è una che mi ritrae a mezzo busto. Ricordo quella foto. Il mio viso ha un’espressione gioiosa e malinconica ma anche appagata. C’è vento e i miei capelli svolazzano disordinatamente mentre la mia mano tiene fermo un foulard sul collo che altrimenti il vento spingerebbe lontano chissà dove. In questa foto Giulia mi somiglia come una goccia d’acqua.
– Perdonami zia se ti ho rubato questa foto, ma sei così sorprendentemente somigliante a me, che non appena l’ho vista tra le foto della nonna, ho pensato per un momento che fossi io!
– Si è vero, piccola. Ci somigliamo molto io e te…- Sento lo sguardo di Giulia indagatore e nel girarmi evito di guardare Giuseppe che è accanto ad Ines sulla soglia della stanza di Giulia.
Ines serve il caffè sul terrazzino. I due bambini continuano a giocare sereni, ora anche con secchiello e paletta. La mamma li guarda attenta, seduta sul muretto, a godere del sole caldo in questa calda, inattesa e alta primavera.
La cucina rimane con la porta spalancata e come formichine, Giulia e Ines si muovono veloci da una parte all’altra scambiandosi ordini e compiti nella preparazione del pranzo. Ogni tanto Giulia esce e mi lascia un bacio a stampo sulle labbra (lo fa da quando era piccola) e canticchia. Ines si gira verso di noi e sorride.
Passano momenti in cui Giuseppe cerca i miei occhi. Seguono brevi ma intensi sguardi, distolti immediatamente non appena cominciano a spiccare il volo.
Chiudo gli occhi e offro il mio viso al sole. Da dietro le palpebre ritornano immagini di interni conosciuti, che di colpo mi riportano ad abitudini sbrigate per inerzia, a volte noiose. Immagini che cancellano il meraviglioso e vitale contesto nel quale mi trovo.
Meglio aprire subito gli occhi e godere dei momenti che si stanno vivendo perché domani è un altro giorno e perché qui, la notte tinge di nero anche il mare.
Il sole accende di bianco le casette in lontananza e annulla, in parte, i colori tenui delle altre. Lenti e trasparenti, i raggi oltrepassano le cose che si riflettono in parte sul mare. Gli occhi, come persiane, focalizzano ogni angolo.
Il porto, sulla destra si offre come palcoscenico alle persone affacciate sul “loggione”. Le collinette sembrano piccole e morbide barriere in equilibrio precario, che possono cadere solo soffiandoci contro, permettendoti di saltare dall’altra parte.
Il mare ha portato sulla riva, tronchi di legno vuoti.
Un cane è sdraiato pigramente sul marciapiede, incurante di chi gli passa accanto.
Il pulmino di Joe porta una sola e bella turista in perlustrazione dell’isola.
Lente e sinuose le onde accarezzano la riva e macchie di fiori viola sembrano colare come oli sui cespugli di ginestre in fiore, quasi a voler colorare anche queste, mentre le pale dei fichidindia mostrano tutta la loro corposità.
Alcune barche sono abbandonate nell’angolo in fondo mentre altre si dondolano leggere sull’acqua, quasi sospinte dai gabbiani che planano leggeri su di esse determinandone il morbido movimento.
E’ quasi ora del pranzo. Gli odori della cucina cominciano a spandersi nell’aria. Inspiro a pieni polmoni e espiro guardando Giuseppe che m’invita a entrare dentro.
– Domani si va a Palmarola – mi dice.
– Sssstt… domani è un altro giorno. Lasciami godere di ogni momento – gli rispondo.
Quei bambini con la loro mamma stanno andando via. I negozi chiudono le vetrine. Un silenzio privo di ogni enfasi, ammanta il paesaggio fuori.
Il sole è alto nel cielo e colora in giallo-ocra ogni cosa.
La cucina di Ines è fresca e la tavola offre l’opulenza di un’ospitalità amorosa che commuove e rigenera.
Si brinda a questo pranzo di benvenuto. Ci si guarda tutti negli occhi e ognuno pensa qualcosa.
E mentre fuori ogni cosa sembra aver preso sonno, dentro di noi l’amore tace e riposa in un segreto.
Gabriella Nardacci
[A malapena si vede… Ponza. (6). Fine]
Per le precedenti puntate leggi qui e cerca nella sezione racconti
Gino Usai
13 Giugno 2011 at 20:18
Gabriella,
ho letto tutte le puntate del tuo bel racconto. Il tuo arrivo a Ponza è morbido e delicato, incantato e pudico, pieno di rispetto; non sempre è così l’arrivo dei turisti nell’isola.
La descrizione che fai di Ponza è dolce e poetica, piena di sensibilità. Ti ringrazio per la collaborazione a “Ponza Racconta” e per l’omaggio che hai voluto fare alla nostra isola.
Con stima e simpatia,
Gino Usai