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di Antonio Usai
Il passato è solo il presente in un’altra forma.
(Bertolt Brecht)
La colonia di Ventotene
Ventotene, con una superficie di 1,3 chilometri quadrati, lunga 2,7 chilometri, larga fra i duecento e i settecentocinquanta metri, è leggermente ondulata e quasi priva di alberi. Battuta da tutti i venti, l’isola dista circa ventidue miglia marine da Ponza, la maggiore delle isole ponziane.
Fino agli anni Sessanta del secolo scorso, prima della costruzione del nuovo porto commerciale, l’approdo più importante per le navi di linea era a Cala Rossano, abbastanza vicina al centro abitato, o a Cala della Parata Grande, a seconda delle condizioni meteo-marine.
Quando il mare era molto mosso da entrambi i versanti, con venti del terzo e quarto quadrante, e non c’era alcuna possibilità di attracco sull’isola in condizioni accettabili di sicurezza, il piroscafo saltava lo scalo e proseguiva la corsa per Gaeta, Napoli o Ponza, a seconda del giro.
* * *
La prima colonia penale di Ventotene risale al 1768, quando il re delle due Sicilie inviò sull’isola cento forzati scortati da una compagnia di soldati e altrettante donne liberate per l’occasione dal carcere femminile di Napoli. Altri ne seguirono, in tempi diversi, nei due secoli successivi. La prima colonizzazione di Ponza, com’è noto, c’era già stata, nel 1734.
In ogni epoca la gestione della colonia penale rappresentò una fonte di reddito sicura per gran parte degli isolani. Nel 1908, per esempio, a fronte di quattrocento residenti, la colonia dei coatti ammontava a centoventitré unità e rappresentava un serbatoio di manodopera a basso costo per l’agricoltura e la pesca, quindi una fonte di relativo benessere per i residenti.
Un paio di anni dopo l’istituzione, da parte del regime fascista, delle prime due colonie di confino politico, a Ponza e a Lipari, agli inizi degli anni Trenta fu studiato un piano che prevedeva la trasformazione di Ventotene da reclusorio per coatti e sede di una Compagnia di disciplina, a luogo di segregazione per confinati comuni, non politici quindi, a differenza di quanto deciso per le due isole citate.
Il progetto fu approvato e realizzato in breve tempo. Il primo contingente di confinati comuni, appunto, giunse a Ventotene il 18 gennaio del 1931. Nei mesi successivi altri ne sbarcarono, fino a raggiungere la ragguardevole cifra, considerate le piccole dimensioni dell’isola, di centosettanta unità.
L’anno seguente, nell’aprile del 1932, con l’aumentare del numero di oppositori al regime in quasi tutti gli strati sociali del Paese, il capo della polizia inviò un ispettore a Ventotene per valutare la possibilità di trasformare ulteriormente la colonia confinaria in modo tale da accogliere esclusivamente oppositori politici, non essendo più sufficienti le colonie istituite a Ponza e a Lipari, quattro anni prima.
Il sopralluogo si concluse con una valutazione sostanzialmente positiva, a condizione, però, che si fosse proceduto prima all’ampliamento delle strutture ricettive esistenti, piuttosto modeste, e si fossero potenziati i collegamenti con la terraferma.
Letta la relazione tecnica, il Ministero dell’Interno decise di procedere speditamente nella realizzazione del nuovo progetto. Nell’estate dello stesso anno, prima trasferì dall’isola i centosettanta confinati comuni in strutture individuate sulla terraferma, e successivamente li sostituì con duecentottanta oppositori politici, molto più pericolosi per il regime.
Nel luglio del 1939 la colonia confinaria di Ponza fu soppressa. Con un preavviso di appena 24 ore, una parte dei confinati fu mandata alle isole Tremiti, gli altri s’imbarcarono per la vicina Ventotene che, fino a quel momento, era stata considerata una colonia minore.
Nel periodo della guerra, nell’ex colonia di Ponza, il posto dei confinati fu preso dagli «internati» greci, albanesi e slavi i cui rispettivi paesi furono aggrediti dall’Italia e dalla Germania.
Nei suoi scritti, Magri, destinato alle Tremiti, racconta in modo esemplare la sua improvvisa partenza da Ponza:
« …lavorai fino alle due di notte e intanto vedevo tutte le luci delle altre case accese, e in ogni abitazione s’indovinavano persone affaccendate. Nessuno, quella notte, chiuse occhio in paese. Alle tre vennero i militi a prendermi per condurmi in camerone. Anche lì c’erano confinati indaffarati intorno ai bagagli e poi, per un’ora buona, si svolse la cerimonia dell’incatenamento. Ci legarono a due a due. Il polso destro di uno legato al sinistro dell’altro, in modo da lasciarci almeno una mano libera di trasportare i sacchi e le valigie. Le coppie erano unite in catene da venti. Alle cinque c’imbarcammo e poco dopo partimmo mentre da ogni dove la popolazione e quelli destinati a Ventotene ci salutavano affettuosamente.»
In verità, le strutture di accoglienza previste dal progetto originario di trasformazione della colonia di Ventotene furono ampliate soltanto molti anni dopo, in occasione della chiusura della colonia di Ponza. L’8 luglio del ’39, infatti, iniziarono i lavori per la costruzione di quindici imponenti edifici in muratura, i cosiddetti casermoni, destinati ad alloggiare sia i confinati che i militi.
Una settimana dopo, il 13 luglio, giunsero a Ventotene i primi settantacinque confinati provenienti da Ponza. Per circa un anno, in attesa che fossero completate le strutture ricettive, quei poveri disgraziati furono alloggiati alla meglio nel Castello e nella caserma Granili. I confinati che giunsero con gli scaglioni successivi, per mancanza di posti letto nelle strutture pubbliche, in attesa che venissero ultimati i casermoni, furono autorizzati a sistemarsi in alloggi privati presi in locazione.
Nonostante le insufficienti infrastrutture e le carenze della logistica, nel volgere di pochi mesi il numero dei confinati trasferiti da Ponza a Ventotene salì ad ottocento unità. Di questi, circa settecento erano italiani.
Il gruppo dei comunisti, circa cinquecento, era non soltanto più numeroso, ma il meglio organizzato e con maggiore peso politico nella colonia. Poi c’erano gli anarchici e quelli del Partito d’Azione. Gli stranieri, anche loro in maggioranza comunisti, erano quasi tutti albanesi e jugoslavi. I confinati erano quasi tutti di sesso maschile e le donne appena una trentina.
I confinati più pericolosi erano pedinati ininterrottamente, giorno e notte. A questa categoria appartenevano Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Riccardo Bauer, Umberto Terracini, Camilla Ravera, Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia, Girolamo Li Causi e il socialista Alessandro Pertini. Quest’ultimo, considerato dal regime un irriducibile, era il portavoce della colonia, la punta di diamante dei confinati politici.
L’avvocato Pertini, originario di Stella, un paesino in provincia di Savona, futuro Presidente della Repubblica italiana dal 1979 al 1985, il 30 novembre del 1929 fu condannato dal Tribunale speciale a dieci anni e nove mesi di carcere. Il 10 settembre del 1934, dopo aver scontato sei anni di carcere duro, per lo più nel vetusto penitenziario borbonico di Santo Stefano, per motivi di salute ebbe la pena commutata in confino politico da scontare a Ponza.
Il capo della polizia Bocchini ordinò al direttore della colonia di sottoporre Pertini a vigilanza speciale perché era stato ritenuto il principale organizzatore dell’espatrio clandestino di Filippo Turati, eminente antifascista socialista, e sospettato di avere progettato un attentato contro il Duce. Alla scadenza della prima cinquina, a causa del suo comportamento da irriducibile, la condanna al confino gli fu prorogata di altri cinque anni.
Le condizioni di vita a Ventotene
La già precaria situazione dei rifornimenti, anche per l’assenza di un vero e proprio porto riparato per l’attracco, peggiorò ancora quando, in concomitanza con lo scoppio della guerra, il piroscafo Regina Elena fu requisito dalle autorità militari e sostituito con il Santa Lucia, di tonnellaggio inferiore, non in grado di affrontare il mare mosso.
Specialmente nei periodi invernali, pertanto, capitava che i collegamenti marittimi con Ventotene s’interrompessero anche per qualche settimana. Per Ponza i collegamenti erano meno precari perché il porto borbonico offriva al piroscafo un attracco in banchina relativamente sicuro.
L’incertezza dei collegamenti marittimi aggravava notevolmente il disagio di tutti gli abitanti dell’isola di Ventotene: confinati, forze dell’ordine, militari o popolazione civile, senza distinzioni sociali, per la penuria sul mercato di prodotti di prima necessità, in particolare olio, farina, acqua, verdure, frutta, medicinali e combustibili.
Anche i prodotti ittici nei negozi di Ventotene erano quasi inesistenti, per il divieto di pescare nelle ore notturne, per la difficoltà di esercitare la pesca in sicurezza nel mare minato e per la mancanza di un valido porto rifugio: il minuscolo porto romano era in grado di ospitare soltanto i due motoscafi della polizia e qualche barca a remi.
Già negli anni Trenta, nella piccola isola delle ponziane non esistevano appezzamenti di terreno che non fossero coltivati, tuttavia la produzione locale di prodotti agricoli e frutta era largamente insufficiente: bastava a malapena a soddisfare i modestissimi bisogni della ridottissima popolazione indigena.
Con l’aumento della popolazione isolana, a seguito dell’istituzione della colonia destinata agli oppositori politici, le cose si complicarono ancor più, perché sia l’acqua, sia la gran parte delle derrate alimentari doveva essere importata dalla terraferma.
Contemporaneamente all’arrivo dei confinati, a Ventotene fu rafforzato anche il contingente della Milizia, fino ad un totale di duecento unità, che si andarono ad aggiungere ai contingenti degli agenti di Pubblica Sicurezza e dei Carabinieri Regi, già numerosi.
Qualche mese dopo, in concomitanza con l’entrata in guerra dell’Italia, a Ventotene sbarcò anche un reparto di soldati italiani, cui se ne aggiunse uno tedesco di artiglieria contraerea, anch’esso formato da circa trenta uomini, che riceveva i rifornimenti dalla terraferma attraverso una chiatta corazzata che innalzava la bandiera germanica.
Per soddisfare le necessità alimentari di una popolazione cresciuta così a dismisura e in così poco tempo, con un migliaio di persone che riscuotevano ogni mese stipendi o mazzette e sussidi familiari, era necessario importare sempre più merci dal continente, perché la produzione locale era assolutamente insufficiente, ma i collegamenti marittimi erano rimasti gli stessi di sempre, piuttosto difficoltosi, scarsi e poco affidabili, con un vecchio piroscafo piccolo e lento.
La nave, che un paio di volte la settimana collegava Gaeta con Ponza, faceva sosta a Ventotene dove sbarcava, quando il tempo lo permetteva, nuovi confinati, nuovi guardiani o i loro congiunti; notevoli quantità di derrate alimentari, compatibilmente con le sue possibilità, e merci di ogni genere.
Come si è già ricordato, la nave si ancorava a Cala Rossano (il porto romano era troppo piccolo per poterla ospitare), oppure a Cala della Parata Grande, una insenatura distante circa un chilometro dal centro abitato.
Qualunque fosse la Cala di arrivo, una volta gettate le ancore, uno scalone che andava fino a mare si sporgeva su una fiancata del piroscafo, per facilitare il trasferimento di persone e cose su barconi a remi, piuttosto instabili, che facevano la spola con la spiaggia o la banchina, tra mille difficoltà.
Una volta terminate le operazioni di sbarco e imbarco, la nave salpava le ancore e si dirigeva lentamente verso Santo Stefano, distante poche miglia. Quando d’inverno il mare non rendeva possibile le operazioni su nessuno dei due approdi dell’isolotto, costruiti di proposito su versanti opposti, il battello era costretto a saltare lo scalo. In questi casi, sia detenuti che il personale carcerario, si dovevano arrangiare con le scarse quantità di cibo rimaste nella dispensa, senza ricevere o spedire la posta, nell’attesa, che poteva durare anche diversi giorni, del bel tempo.
Sulla sommità dell’isolotto, ancora oggi è ben visibile l’edificio dell’antico carcere borbonico, tristemente noto per avere ospitato il poeta Luigi Settembrini, eroe della Repubblica Partenopea, e Bresci, l’anarchico che assassinò il re Umberto I° di Savoia. Quando il regicida morì, sembra per cause naturali, il suo corpo fu sepolto nella nuda terra del cimitero eretto in un luogo poco distante dal penitenziario.
Come ai tempi dei Borboni, anche il Tribunale speciale del fascismo condannò al carcere duro, quello di Santo Stefano, appunto, numerosi oppositori politici del regime, tra i quali si ricordano Giancarlo Pajetta, Umberto Terracini, Sandro Pertini e tanti altri.
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A Ventotene, l’acqua piovana convogliata dai tetti a botte nei pozzi di cui ogni casa era dotata, a mala pena riusciva a soddisfare le esigenze degli isolani. Per gli altri residenti provvedeva periodicamente una nave cisterna che si riforniva a Napoli. Una volta giunta sull’isola, azionando le apposite pompe di bordo, l’acqua veniva travasata dalla nave in un grosso serbatoio poco distante dal porto. Ad ore prestabilite, ordinatamente, i confinati potevano attingere da tale serbatoio la razione giornaliera di acqua.
Per fortuna l’isola era elettrificata ma il servizio lasciava molto a desiderare. I gruppi elettrogeni della centrale elettrica venivano fermati ogni sera verso le dieci e riavviati la mattina successiva poco prima delle otto, onde permettere a chi possedeva una radio ricevente, l’ascolto delle trasmissioni di regime sia all’inizio che alla fine della giornata.
I confinati non potevano detenere apparecchi radiofonici né potevano entrare nelle case degli isolani per ascoltare le trasmissioni. E allora le poche famiglie che possedevano una radio tenevano alto il volume affinché anche i passanti, non importava se fossero confinati o cittadini liberi, potessero ascoltare i notiziari nazionali dell’EIAR.
Anche in quell’epoca il centro del paese era la piazza del Castello, da cui si diramavano cinque stradine, la più importante delle quali era via degli Ulivi, in terra battuta, come la piazza d’altronde, lunga circa due chilometri, che attraversava l’isola quasi da un capo all’altro.
Via Rampe della Marina, la stradina a zig-zag, che dalla piazzetta della chiesa conduce al porto romano, era l’unica con il selciato in tutta l’isola.
Gli uffici della direzione della colonia erano ubicati in prossimità della chiesa di Santa Candida.
Il costo della vita a Ponza nel 1936
Negli anni Trenta, il costo della vita a Ponza era molto più elevato che a Napoli e a Roma, non solo per le maggiori spese di trasporto, ma per il monopolio esercitato da un cartello di commercianti isolani, che operavano in mancanza assoluta di concorrenza.
Qui di seguito, sono elencati i prezzi di alcuni prodotti di largo consumo riportati dal listino ufficiale approvato dal comune di Ponza il 22 febbraio 1936. I dati, espressi in lire per Kg o per litro, sono messi a confronto con quelli in vigore a Milano nello stesso periodo e indicati tra parentesi:
pane lire 1,55 (1,90)
pasta di pura semola 2,30 (2,90)
riso comune 1,60 (1,40)
fagioli 1,85 (1,80)
carne di vitello: da brodo 6,40 (5,00), polpa senza osso 9,40 (8,00)
carne di maiale: prosciutto o filetto 8,50 (11,00), costate 7,00, cotica 4,50;
salumi: prosciutto 17,00 (13,50); mortadella 7,00;
formaggio: parmigiano 8,50 (10,00); pecorino sardo 8,50, pecorino romano 10.50;
baccalà: secco 4,00 (3,00), bagnato 3,50 (2,70);
caffè tostato 32,00 (31,00);
zucchero raffinato 6,40 (6,20);
olio puro d’oliva 6,40 (8,00);
lardo nostrano 6,70 (7,80);
burro 12,50 (12,50);
sapone 2,75;
latte di vacca 1,80 (1,20), latte di capra 1,40;
vino 1,80.
Come si può notare, in molti casi il costo dei prodotti alimentari in vendita sull’isola era addirittura superiore a quello di Milano, dove i redditi delle famiglie erano molto più alti di quelli dei ponziani.
Il taglio delle radici napoletane per le isole ponziane
A dicembre del 1934, il regime ebbe l’idea di trasferire Ponza e Ventotene dalla provincia di Napoli a quella di Littoria, capoluogo di nuova costituzione ma difficilmente raggiungibile da Gaeta, capolinea laziale dei collegamenti marittimi con le isole ponziane.
Questa disposizione fu accolta molto male dalla popolazione dell’arcipelago e dagli amministratori locali, perché aumentava il disagio dei cittadini ed aggravava l’inefficienza della pubblica amministrazione. Ponza era sempre vissuta nell’orbita della regione Campania e i ponziani, come i ventotenesi, avevano solide radici storiche e culturali partenopee e con Napoli i rapporti marittimi e commerciali erano stati sempre intensi.
Originariamente, dal punto di vista amministrativo, le isole ponziane avevano fatto parte della Terra di Lavoro (Caserta) e, dopo l’abolizione di detta provincia, fino al 1934 furono aggregate a Napoli.
Sette mesi dopo, il 27 giugno del 1935, accogliendo le lamentele degli abitanti delle due isole, il Ministro dell’interno annullò l’infausto provvedimento amministrativo e tutto tornò come prima, ma solo per due anni.
Il 22 aprile del 1937, infatti, ci fu un altro ripensamento da parte del governo ancora in favore di Littoria.
Il nuovo status, tuttavia, durò fino all’8 settembre 1943, quando le due isole, liberate dagli anglo-americani prima della restante parte della provincia laziale, furono riassegnate per la terza volta a Napoli.
Il girotondo terminò soltanto il primo luglio 1944, quando il nuovo governo, espressione dei partiti usciti vincitori dalla guerra di liberazione, assegnò definitivamente Ponza e Ventotene alla giurisdizione del capoluogo pontino, cui fu attribuito l’attuale nome di Latina.
A posteriori, per la maggior parte degli abitanti del nostro arcipelago, la scelta di Latina si è rivelata di gran lunga la più appropriata, anche perché nel frattempo i collegamenti marittimi con i porti del Lazio (Formia, Terracina, Circeo, Anzio, Fiumicino) sono diventati più frequenti ed anche i collegamenti viari e ferroviari nei giorni d’oggi rendono le distanze con il capoluogo pontino più accettabili.
Antonio Usai
[Le isole ponziane destinate ai confinati politici. (2). Fine]