di Leonardo Lombardi
Ponza è ricchissima di reperti romani relativi alla distribuzione delle acque; dall’antico acquedotto che percorre tutta l’isola, da un capo all’altro, alle numerose grotte e cisterne per la raccolta, fino a quel reperto unico al mondo, che è la diga romana ad arco di Giancos
La redazione di ponzaracconta è orgogliosa di ospitare sulle pagine del sito gli scritti di uno dei massimi esperti mondiali del campo, Leonardo Lombardi, idro-geologo insigne, che comincia con il definire i rudimenti base dell’idraulica antica.
L’idraulica antica e la distribuzione delle acque
L’evoluzione dell’uomo è strettamente legata all’uso dell’acqua. E’ impossibile pensare all’umanità senza far riferimento al prezioso liquido essenziale per la vita. I giacimenti preistorici più importanti sono sempre in vicinanza di corsi d’acqua o comunque di sorgenti o pozze ove fosse possibile approvvigionarsi con facilità. Occorre risalire molto in alto nella scala del tempo per trovare tracce di interventi umani per il trasporto o il prelievo di acqua da fonti che non fossero in vicinanza degli insediamenti. L’invenzione della ceramica consentì il trasporto di modeste quantità d’acqua da aree anche lontane dalle fonti naturali, ma dovevano passare ancora alcune migliaia di anni per arrivare ad un progressivo controllo dell’acqua e a un suo uso più diffuso.
Le civiltà idrauliche dell’Asia, dell’Africa del Nord e delle Americhe ci forniscono indicazioni preziose sull’uso dell’acqua in agricoltura per accrescere la produzione.
Ancora oggi e da sempre, le popolazioni nomadi dell’Africa e dell’Asia percorrono migliaia di chilometri ogni anno passando da un punto d’acqua all’altro. Pozzi, stagni, piccoli e grandi laghi e sorgenti diventano i punti di riferimento e d’incontro di popolazioni transumanti che vivono, ancora oggi, con gli stessi ritmi dei popoli nomadi del Neolitico.
Un grande salto avviene allorché l’uomo, insediato in modesti centri abitati, riesce attraverso una tecnologia in continuo sviluppo, a non essere soggetto a spostamenti per rifornirsi d’acqua, portando l’acqua nei pressi degli insediamenti. Prima con sistemi di accumulo d’acqua piovana per un uso procrastinato nel tempo dell’acqua meteorica. In seguito con pozzi che prelevavano acqua da circolazioni idriche sotterranee. Infine con opere di presa da sorgenti o corsi d’acqua per condurre l’acqua in serbatoi o fontane pubbliche a servizio delle popolazioni stanziali.
Solo in epoche più vicine a noi (1000-2000 anni prima dell’era moderna) si hanno i primi sistemi di un reale controllo dell’acqua da destinarsi non solo ai fini agricoli ma anche ai fini civili. In Mesopotamia, a Creta nel Palazzo di Cnosso, in Egitto a Tel El Amarna e a Gaza, sono stati rinvenuti tubi in terracotta e strutture idrauliche di prelievo dell’acqua datati a qualche migliaio d’anni prima di Cristo.
Omero cita spesso bagni ristoratori e cure del corpo prima e dopo abluzioni in vasche metalliche.
Non è del tutto chiaro se Cnosso avesse un acquedotto, ma è certo che tubazione fittili conducevano l’acqua in particolari ambienti dove era utilizzata a scopo igienico. Nel palazzo di Cnosso, con datazione al Medio Minoico III (1700-1500 a.C. circa), si può ancora osservare una latrina collegata ad un collettore fognario che percorre nel sottosuolo una parte del palazzo.
I Fenici, gli Assiri, gli Ittiti, i Persiani costruirono canali sotterranei che rappresentano vere e proprie opere idrauliche per l’approvvigionamento idrico di centri urbani e rurali. Si tratta dei Kanat, lunghe gallerie sotterranee che captano le acque di circolazioni idriche delle zone montuose, per trasferire l’acqua in zone di pianura, distanti anche decine di chilometri dall’opera di presa. Questa tecnica si diffonde in tutto l’Oriente, ma anche in Africa del nord e raggiunge la Sicilia in occasione dell’occupazione araba.
E’ alla civiltà greca, in particolare a quella ellenistica, che si debbono le grandi innovazioni tecnologiche che hanno poi permesso ai Romani di diffonderle in tutto l’impero migliorandole in continuazione.
E’ con la civiltà romana che l’acqua diviene un bene comune e ogni città dell’impero dispone di un acquedotto, di fontane pubbliche e di servizi igienici privati e pubblici che trasformano le città romane in un continuo trionfo dell’acqua.
Il miglioramento delle opere di presa, sia da sorgenti che da corsi d’acqua, e il trasporto dell’acqua in canali, poggiati su lunghe file di arcate o contenuti in lunghe gallerie consente di prelevare l’acqua a decine o centinaia di chilometri dai centri di consumo di questo bene essenziale per la vita. Una delle invenzioni romane, che migliorò notevolmente il trasporto dell’acqua, consiste nella messa in opera, ovunque servisse, di una malta impermeabile, il coccio pesto, costituita da calce, pozzolana e frammenti minuscoli di materiale fittile (tegole, mattoni, vasi in terracotta) [‘fittile’: lat. fictilis, da fingere, plasmare; derivato dall’argilla-N.d.R.]. Questa malta veniva messa in opera battendola in continuazione; il risultato finale era una malta durissima e impermeabile.
L’acqua, come tutti sanno, è soggetta solo alla gravità, per cui messa in un canale scende dall’alto verso il basso con una velocità che dipende dall’inclinazione del canale. Se il canale è molto inclinato la velocità dell’acqua cresce fino a diventare pericolosa per le opere idrauliche; se la velocità è troppo bassa l’acqua si muove poco con rischi per le caratteristiche organolettiche.
I tecnici romani, consci di questi problemi, costruivano i canali con una pendenza compresa tra 0,005 e 0,02; ciò significa che per ogni chilometro di canale la quota si abbassava di 50 cm o di 2 metri.
Le accurate misurazioni per realizzare gli acquedotti venivano eseguite grazie a due strumenti la corobate e la groma; il primo è una livella ad acqua, lunga tre metri, l’altro consentiva di avere allineamenti perfetti.
Queste norme tuttavia confliggono con la realtà del terreno. Gli acquedotti per Roma provenienti dall’Appennino prelevano acqua a quote attorno ai 315 metri sul livello mare. In città l’acqua viene distribuita partendo da quote comprese tra i 40 e i 60 m s.l.m. La distanza dalla presa alla città, lungo i tracciati scelti, varia da 65 a 90 chilometri con una pendenza media compresa tra 2,8 e 3,8 per mille. Per diminuire drasticamente la pendenza è possibile che i tecnici romani abbiano messo in opera dei pozzi di dissipazione d’energia. Tecnica, forse di invenzione romana, utilizzata in molti acquedotti (tra questi Toledo dove l’acquedotto in un breve tratto perde oltre 100 metri di quota con più di dieci pozzi di dissipazione), La tecnica consiste nel collegare il canale con la testa di un pozzo, profondo ad esempio 10 m, nella caduta nel pozzo, l’acqua perdeva gran parte dell’energia cinetica e veniva incanalata poi in un nuovo condotto posto a sette metri sotto la bocca pozzo. Si guadagnavano così 7 metri di salto. Con una ventina di questi pozzi il problema della quota d’arrivo dell’acquedotto era risolto.
Altra importante innovazione romana fu il calcestruzzo (opus caementicium), miscela di calce, pozzolana e frammenti lapidei, che consentiva loro di realizzare muri, di altezza elevata e di elevato spessore, previa la messa in opera di casseforme entro le quali gettavano la miscela che poi veniva premuta e battuta. Strato per strato innalzavano muri ed archi di incredibili dimensioni. Nel pieno impero le volte erano rinforzare con barre in ferro (calcestruzzo armato).
La messa in opera di archi e muri per sostenere i canali degli acquedotti era molto costosa, sicuramente più costosa dello scavo di gallerie. Queste non avevano bisogno dell’impiego di mano d’opera specializzata, né dell’approvvigionamento di calce, pozzolana e pietre per il rivestimento. Le gallerie entro cui far scorrere l’acqua, previa impermeabilizzazione del canale, avevano bisogno solo di mano d’opera non qualificata. E’ questa una delle ragioni per le quali oltre l’80 % dei tracciati degli undici acquedotti per Roma è in galleria.
Di tutte queste opere restano nel Mediterraneo, in Africa del Nord, in Asia minore, nel medio Oriente, nell’Europa del Nord e in Inghilterra, vestigia imponenti delle quali gli acquedotti su arcate rappresentano le opere più appariscenti, riprodotte e studiate da archeologi e amatori.
I romani appresero le tecniche di controllo, gestione, distribuzione e evacuazione dell’acqua da altre civiltà, la greca e l’etrusca in particolare, ma riuscirono con il tempo a perfezionare sempre più le tecnologie e la progettazione e divennero maestri insuperati ed emulati. Fino al 1800, quando si inventarono i tubi estrusi in ferro e i motori termici o elettrici, i progetti e le realizzazioni in campo idraulico sono state copia di quelli romani.
Leonardo Lombardi
[L’idraulica antica e la distribuzione dell’acqua. (1). Continua]