Confino Politico

Le isole ponziane destinate ai confinati politici (1)

 

di Antonio Usai

Il popolo che non ha memoria di sé, non ha né futuro né presente.

E’ condannato all’eterno ritorno degli errori.

(Theo Angelopulos)

 

 

 


Ponza, colonia confinaria per gli oppositori del regime

I primi confinati oppositori del regime fascista arrivarono a Ponza nei primi mesi del 1928. I più pericolosi (comunisti, anarchici e quelli ritenuti capaci di organizzare evasioni o attentati) venivano mandati nelle isole mentre gli altri venivano confinati in paesini della terraferma.

In genere, le persone che si trovavano al confino avevano percorso la stessa via dolorosa: prima una soffiata alla polizia, poi l’arresto nel cuore della notte, il carcere in cella d’isolamento, una lunga carcerazione preventiva, il deferimento al Tribunale Speciale o alla magistratura ordinaria o alla Commissione provinciale per il confino e, infine, la condanna e la traduzione nel luogo di espiazione della pena.

I viaggi per giungere a Ponza, specialmente per i condannati provenienti dall’Italia settentrionale o dal profondo Sud, duravano diversi giorni, prima a bordo di veri e propri carri bestiame delle ferrovie e, infine, ammanettati e rinchiusi nella stiva del piccolo piroscafo o motoveliero che collegava Gaeta o Napoli con la più grande delle isole ponziane.

Una volta giunti a destinazione, i condannati erano costretti a vivere in condizioni igienico-sanitarie molto precarie, con una sorta di infermeria sfornita perfino delle attrezzature di primo soccorso sanitario. I farmaci mancavano o erano insufficienti, così in tanti, tra i confinati, si ammalavano o morivano banalmente per mancanza di cure adeguate.

Nel libro “Come ho tentato di diventare saggio – Io Ulisse”, Altiero Spinelli racconta che, quando nell’isola si era saputo che alcune centinaia di confinati antifascisti sarebbero giunte a Ponza, il parroco della chiesa del porto, don Raffaele Tagliamonte, durante una predica domenicale dall’altare aveva raccomandato alle donne isolane di guardarsi come dalla peste da coloro che stavano per giungere a Ponza, perché si trattava di nemici del Duce, del Re e di Dio. Non era gente di chiesa e perciò non avrebbe rispettato nulla e nessuno.

Allorché i confinati furono arrivati, considerate le premesse, la popolazione li accolse con molta diffidenza.

Al principio, non c’erano ancora tutte quelle restrizioni che alcuni anni dopo avrebbero caratterizzato il regime della colonia e molti confinati, anziché accettare i cameroni messi a disposizione dalle autorità, preferirono prendere in affitto camere singole o piccoli appartamenti sull’isola, nella zona del porto, di Sant’Antonio, del Canalone e della Dragonara.

A dispetto delle invettive domenicali del parroco, ai ponziani apparve subito che i nuovi arrivati non erano pericolosi malviventi ma, tranne poche eccezioni, si trattava di gente per bene. Qualcuno aveva fatto arrivare anche la famiglia ma la maggior parte di loro viveva da sola perché si trattava di giovani non sposati o per altri motivi.

Diverse ragazze isolane, nonostante le difficoltà a cui sarebbero andate incontro, s’innamorarono dei nuovi arrivati e alcune  finirono per sposare un confinato.

Altre ragazze, nubili o maritate, a detta di Altiero Spinelli, divennero le amanti di alcuni confinati. Altre ancora divennero puro oggetto di piacere da parte di alcuni nuovi arrivati.

* * *

I confinati erano obbligati a portare sempre con sé il libretto rosso sul quale erano elencate le prescrizioni cui dovevano attenersi nelle diverse occasioni. Chi al controllo ne risultava sprovvisto veniva punito con una condanna che poteva variare tra un mese e un anno di prigione. Inoltre, il periodo eventualmente trascorso in carcere non veniva scomputato da quello totale di confino, con conseguente allungamento della pena.

Secondo Giorgio Amendola, nel libro “Un’isola”, nonostante la propaganda antifascista in Francia avesse fornito un quadro abbastanza veritiero sulle condizioni materiali di vita dei confinati, aveva trascurato l’aspetto più deleterio della repressione fascista: lo stato di continua incertezza, il dover dipendere ogni momento della giornata dagli arbitrii e dai mutevoli umori del direttore della colonia, degli agenti di polizia, dei carabinieri e perfino dei militi fascisti.

Le condizioni materiali, invece, nel complesso, almeno nel primo periodo di istituzione del confino di polizia, non erano poi così cattive. La mazzetta di dieci lire al giorno, poi ridotta a cinque verso la fine del 1930, a cui si aggiungeva una sorte di assegno familiare per coloro che avevano famiglia (una lira al giorno per la moglie e cinquanta centesimi per ciascun figlio a carico), assicurava ai confinati condizioni di vita superiori a quelle riservate, in talune regioni italiane, a certe categorie di lavoratori. I confinati meridionali, in prevalenza pugliesi, riuscivano perfino a mandare a casa, ogni mese, un vaglia dell’ordine delle cento lire, risparmiate sul sussidio ricevuto. Una somma importante se si considera che in un’epoca un bracciante del Sud poteva guadagnare cinque o sei lire al giorno.

Tanto per farsi un’idea sul significato di queste cifre, nel 1933, e cioè qualche anno dopo il periodo che stiamo considerando, lo stipendio mensile di Michelina Montella, la bidella delle scuole elementari di Ponza, ammontava a circa ottanta lire, meno di tre lire al giorno, compreso gli assegni familiari.

Per contro, i confinati emiliani di origine operaia o coloro che provenivano da famiglie borghesi di città, abituati ad un più alto tenore di vita, ricevevano periodicamente dalle famiglie o dalle organizzazioni di soccorso rosso, aiuti economici e pacchi di cibo ad integrazione della mazzetta per loro insufficiente.

Queste disparità di mezzi economici tra confinati e isolani spesso originavano sentimenti d’invidia e di malcontento nella popolazione locale, danneggiata anche dalla concorrenza spietata che i confinati più intraprendenti attuavano nei campi più disparati, in particolare nelle attività artigianali.

Qualche anno fa, ricordando in modo sbagliato la benevolenza di Mussolini nei confronti degli antifascisti condannati al confino di polizia, il premier Berlusconi ha parlato di “confinati in villeggiatura a spese dello Stato”, scatenando una dura polemica sui giornali e nelle sedi istituzionali con le forze politiche di opposizione.

I notabili isolani si erano sempre espressi contro l’istituzione della colonia confinaria perché già allora avevano in mente per Ponza un modello di sviluppo basato essenzialmente sul turismo e le attività commerciali.

Insieme ad alcune centinaia di confinati, l’isola si riempì anche di poliziotti, carabinieri e 187 camicie nere della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale.

Per certi versi, la vita dei militi fascisti e delle altre forze dell’ordine era simile a quella dei confinati, con poche libertà in più. Lontani da casa, senza opportunità di svago nel tempo libero, relegati su un’isola considerata fuori dal mondo civile, vivevano in caserme disadorne, senza acqua corrente, senza impianti di riscaldamento, senza servizi igienici adeguati, cosicché tanti di loro, per migliorare le condizioni di vita quotidiana, dopo un breve periodo di fidanzamento, si sposavano con ragazze isolane in età da marito.

* * *

Il regime fascista, dopo l’evasione da Lipari, nel 1929, di Emilio Lussu, Carlo Rosselli e Francesco Nitti, nipote di Francesco Saverio Nitti, eminente statista dell’inizio del Novecento, era ossessionato dal timore che i confinati potessero fuggire dalle isole ed espatriare in Francia, dove la stampa antifascista era solita dare un particolare rilievo alle testimonianze dei perseguitati dal regime di Mussolini.

Per evitare che il fenomeno si ripetesse, nelle isole di confino, Ponza in particolare, furono inasprite le misure di vigilanza e aumentato il numero di militi. Furono costruite, inoltre, numerose garitte per il controllo delle linee di demarcazione delle zone di territorio nelle quali, durante il giorno, era permesso l’accesso dei confinati; furono istituiti posti di blocco, sentinelle, ronde e attuate frequenti perquisizioni alle persone.

Il porto e le spiagge erano sorvegliate da sentinelle appostate in punti strategici, armate con armi pesanti, che controllavano l’arrivo e la partenza di tutte le imbarcazioni, compresi i gozzi a remi dei pescatori. Durante le ore notturne furono organizzati servizi di piantonamento dei Cameroni e degli alloggi privati che ospitavano i condannati.

I confinati ritenuti più pericolosi furono fatti pedinare notte e giorno senza interruzione: un milite doveva seguire il confinato in tutti i suoi spostamenti tenendosi ad una distanza massima di un metro.

I soggiorni nelle isole di confino divennero sempre più umilianti e duri da sopportare. Numerosi furono gli atti di rivolta, da parte dei confinati e dei loro familiari, contro l’apparato poliziesco messo in campo che colpiva certamente gli oppositori ma anche gli incolpevoli isolani.

Per i confinati sposati che abitavano in case private le cose non andavano meglio. I controlli erano diventati ossessivi, anche nelle ore notturne, e gravi erano le limitazioni alle loro libertà personali.

La legge istitutiva del confino prevedeva una pena che variava da uno a cinque anni ma, spesso, al termine della prima cinquina, con la motivazione che il confinato aveva tenuto una cattiva condotta nel periodo di espiazione della pena, agli irriducibili veniva inflitta una seconda ed anche una terza cinquina.

 

I soprusi della Milizia a Ponza

In ogni ponziano la Milizia vedeva un potenziale nemico perciò la vigilanza sulla popolazione isolana era molto puntuale e capillare, notte e giorno. Anche la polizia e i carabinieri regi si comportavano allo stesso modo. L’accusa più pesante rivolta ai ponziani, in particolare ai pescatori di aragoste che, per lavoro, con le ‘mburchielle toccavano diversi porti stranieri, tra la Francia, la Corsica e la Tunisia, era quella di aiutare i confinati a intrattenere corrispondenza con fini eversivi con i numerosi antifascisti italiani riparati a Parigi.

Nel febbraio del 1930, a Ponza accadde un episodio che ben rappresenta la protervia della Milizia. L’avvenimento è ben rappresentato da Silverio Corvisieri nel libro “All’isola di Ponza” – anno 1985, Editore IL MARE libreria internazionale.

Una sera, un milite ubriaco precipitò dalla parete rocciosa di Chiaia di Luna. La Milizia, per non screditare l’immagine del reparto, proclamò il lutto cittadino e organizzò un funerale solenne con gli onori militari per ‘l’eroe caduto nell’adempimento del proprio dovere’. Un gran numero di confinati (quelli meno politicizzati, i cosiddetti Manciuriani) e di ponziani furono costretti a partecipare alla cerimonia funebre e a seguire il feretro in coda, dietro i preti, le autorità civili e militari, i fascisti locali, i reparti armati, i balilla, gli avanguardisti in uniforme e moschetto e la banda musicale.

* * *

Il 20 agosto del 1932 si registrò un altro episodio emblematico del clima di sopraffazione che si respirava a Ponza. L’uccisione deliberata per futili motivi di un adolescente per mano di un milite che sconvolse l’intera comunità isolana.

Il ricordo è rimasto nitido anche nella mente di Lucia Mazzella di Michelina, perché la vittima, Salvatore Scotti, era un ragazzo quasi suo coetaneo, di appena dodici anni, che conosceva molto bene.

Ecco come Corvisieri racconta nel libro “All’isola di Ponza” quel tragico episodio:

«Alle ore 16.30, in località Scotti, un milite in servizio in quel posto di guardia, uccise con una fucilata il dodicenne Salvatore Scotti che, in presenza di due altri ragazzi, aveva avuto l’ardire di rifiutargli un grappolo d’uva

Invece di arrestare il milite omicida, la Milizia intervenne per nascondere l’accaduto.

Ancora Corvisieri: «Il cadavere del ragazzo fu frettolosamente posto su una barella militare e portato direttamente al cimitero. Carlo Scotti, padre di Salvatore, accorso furibondo al comando della Milizia per denunciare il delitto, fu pestato a sangue all’interno dell’ufficio e poi scaraventato in strada seminudo e privo di sensi. Per i colpi ricevuti fu costretto a restare a letto una settimana. Pesantissime furono le minacce a lui e a sua moglie affinché non si rivolgessero all’autorità giudiziaria e dichiarassero, invece, che la morte di Salvatore era stata provocata da cause naturali

 

 

[Le isole ponziane destinate ai confinati politici (1) – Continua]

Antonio Usai

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