’A primma vota a “fellune”
di Enzo Di Fazio
Esemplare di Maja squinado (Granseola, rancio fellone)
“Dimane iamme a fellune!”
Non era una decisione che giungeva all’improvviso.
Scaturiva da un sapere che si era formato grazie ad una somma di esperienze, di consigli, di osservazioni del mare e delle correnti.
Da giorni seguivamo l’andamento dei venti, la sera scrutavamo il cielo, accompagnavamo il sole quando calava all’orizzonte. Ogni mutamento meteorologico veniva annotato mentalmente, pronto ad esaltare o affievolire l’ansia dell’attesa.
Le rassicurazioni dei padri ci confortavano.
“Uagliu’, nun ve preoccupate… È bon tiempe, e chesta è ’a settimana bbon”
Il mare doveva essere piatto, quasi irreale; il vento inesistente, le correnti assenti.
L’attrezzatura era pronta da giorni.
Avevamo controllato che la rete “d’u’ cuoppe”(1) non avesse fratture e che “u specchie” (2) fosse a tenuta stagna.
L’uscita era prevista intorno alle sette.
Eravamo già svegli quando i genitori si accostavano ai lettini per dirci:
“Uagliù, è ora; ’a iurnata è proprio bbona”
La conferma del bel tempo eliminava d’improvviso l’incertezza che di tanto in tanto, nel corso della nottata, era affiorata nei rari momenti di dormiveglia.
Uscivamo da soli, io e mio cugino Pompeo. Ed avremmo messo in pratica gli insegnamenti dei nostri padri, ma soprattutto le cose viste in silenzio quando avevamo già partecipato da osservatori alle loro pescate.
Il faro di Zannone e il tratto di mare dove pescavamo a felloni
La pesca a Zannone – è vero – era un diversivo; riempiva i tempi in cui i fanalisti non erano dediti al servizio, ma consentiva anche di procurare dell’ottimo pesce che si utilizzava in famiglia o che veniva donato per ‘disobbligarsi’ per una cortesia ricevuta.
Era quindi pratica seria, fatta spesso di silenzi quasi sacrali che davano vigore all’essenzialità dei gesti.
Da parte nostra, tornando dal mare con le mani piene, saremmo diventati di colpo più grandi, avremmo guadagnato la fiducia ed il consenso degli adulti e, di diritto, un posto da gregari al loro fianco nelle pratiche più importanti come la pesca con le coffe o la traina a ricciole.
La barca, pronta come sempre, ci aspettava giù “allo scaro”, il luogo dove era custodita e dove, dopo ogni uscita, veniva tirata a secco grazie ad un comodo verricello manuale e a delle enormi “falanghe” fissate a terra, unte abbondantemente di “sivo” (sego).
Era una barca leggera, ben sfilata, messa a disposizione dalla Marina Militare.
Lunga poco meno di cinque metri, molto simile ad una piccola scialuppa di salvataggio, era pitturata, sia all’interno che all’esterno, tutta di grigio, il colore della vernice che forniva il Comando Zona Fari di Napoli, la tinta, d’altronde, delle navi militari.
Il che la rendeva paradossalmente anonima ed unica allo stesso tempo. I pescatori di Ponza che venivano con i gozzi a calare le reti o le coffe intorno all’isola la riconoscevano da lontano proprio per quel colore/non colore.
Quando la vedevano, il più delle volte si avvicinavano per scambiare due chiacchiere con i fanalisti, per curiosare sull’esito della pesca o per chiedere del passaggio delle ricciole.
“Che si dice a Ponza…” “Cumm’è ghiute ’a pesca..” esordiva mio padre.
“Tatò, vide cca..!: milleccincuciente metri ‘i rezze e sule tre cascette ‘i robbe”.
“Troppa bafagna..! …’A vide sta rusate… è tutte calore…
Pe’ truva’ ‘nu poche ’i pesce ‘u tiempe addà fa ’na mossa…”
”Ve serve niente? …dimane turnamme ’a chisti pparte..”
Poche parole, essenziali, bastevoli per alleggerire il vuoto della lontananza.
La barca, quantunque a poppa piatta, non era dotata di fuoribordo.
Un “Moscone” della Piaggio di prima generazione, a gambo lungo, arriverà solo diversi anni dopo.
Ci muovevamo con due coppie di lunghi remi tenuti in gioco con dei robusti scalmi di metallo a forcina.
Quella volta, però, uscendo in due, ne caricammo a bordo solo una coppia.
Si partiva con un remo a testa vogando, all’impiedi, come i gondolieri.
Affondavamo i legni in acqua con sincronismo perfetto, forti delle vogate fatte per gioco o per andare a scovare a due miglia dall’isola ’a secca ’i Pettenesse (dal nome di un pescatore di Le Forna che l’aveva individuata) cioè i fondali dove prendere con il polentino (u’ lentine) ’i pperchie da 200 gr. l’una.
La barca scorreva rapida, l’isola sopra di noi sembrava ancora addormentata nell’assenza di vento e di rumori. Sentivamo solo lo sciabordio dell’acqua mossa dai remi.
Si respirava un’aria buona, quella fresca del mattino, dove le essenze della prima fioritura dell’elicriso si mescolavano all’odore intenso delle alghe e del mare.
Superata la coppia di faraglioni passandoci in mezzo, giravamo subito in direzione della “preta” zona dalla quale sarebbe iniziata la nostra pesca.
I due faraglioni, subito dopo ‘lo scaro’
Il tratto di mare da perlustrare partiva, appunto, dalla “preta” per interrompersi poco prima dei “fenestune” dove d’improvviso l’acqua diventava profonda.
Dovevamo mantenerci, zig-zagando, ad una profondità tra i 5 e i 10 metri.
Ci eravamo divisi i compiti. Ci saremmo alternati alle incombenze ed alle emozioni nel rispetto dei patti stabiliti.
Iniziò Pompeo imbracciando lo specchio e portandolo al di fuori della barca.
Il torace disteso sul legno della poppa, il capo infilato nello specchio quasi fosse una maschera, cominciava così la perlustrazione dei fondali.
Il coppo, pronto alla cattura, disteso sul pagliuolo con le cime in ordine appoggiate alla murata.
Io al governo dei remi allo scopo di rendere il più agevole possibile il lavoro di Pompeo.
Con le spalle rivolte alla prua dovevo essere pronto a manovrare la barca nel rispetto dei comandi che Pompeo, senza mai cavare la testa dallo specchio, mi impartiva con i movimenti della mano destra.
La gestualità di quella mano era un alfabeto morse. Avevamo imparato a leggerne il senso prendendo lezione dai grandi.
Quando il braccio, d’improvviso, si irrigidiva e la mano rimaneva completamente aperta significava che la preda era stata avvistata.
“Damme ‘u cuoppe, fa’ ampresse !!” – esclamava Pompeo.
Lasciavo così i remi e, tenendo ben distinte le corde laterali del coppo dalla cima centrale che chiudeva la rete, andavo incontro alla mano tesa di Pompeo.
La calata in acqua doveva essere accorta, lenta; le istruzioni che ci passavamo, a voce bassa, come a voler rafforzare quella strana condizione di agguato; l’attenzione alta.
Io tornavo al governo dei remi per tenere ferma la barca sul posto; Pompeo, tra “grugniti”, bestemmie e comandi: …voga ’nu poco a dritta… siie a poppa… ferma accussì…
Imbrigliò e portò su il primo fellone, un bel maschio con due chele enormi. Subito dopo ne prese un altro.
Quando venne il mio turno, il primo – …mannaggia ‘a miseria! – lo persi.
Era adagiato tra due scogli in bella vista, ma sotto di lui uno slargo idoneo per una via di fuga …e così accadde appena venne lambito dal ferro del coppo.
Il secondo non mi sfuggì, anche perché era in posizione obliqua, da scalatore, aggrappato ad un masso abbastanza grande, tanto da consentirmi una più agevole manovra dell’attrezzo di cattura. Sentivo il cuore uscirmi dal petto per l’emozione mentre coordinavo i movimenti: con la sinistra reggevo lo specchio, nella destra scorrevano le cime tirate giù dal peso del coppo. Pompeo all’impiedi, muovendo in senso contrario l’uno all’altro i remi, teneva ferma la barca.
La posizione era quella ideale; il ferro toccò per metà la parte più alta dello scoglio adagiandosi completamente con l’altra metà oltre il fellone. Questi, muovendosi, rimase impigliato nella rete che intanto gli si era calata addosso.
Fu semplice poi, manovrando le tre cime laterali, capovolgere il coppo e mettere al sicuro il fellone: una bella femmina carica di uova.
…Non saremmo tornati a mani vuote…
Il percorso, fino al tempo del ritorno avvenuto intorno a mezzogiorno, ci riservò altre emozioni nell’alternanza dei ruoli.
Ne portammo a terra sette, tre femmine e quattro maschi, dopo averne ‘affrontati’ undici.
Non credevamo quasi all’impresa portata a termine.
Sul pagliuolo i felloni cercavano di scalarsi l’un l’altro in un vano tentativo di trovare un varco verso il mare; dai mantici della bocca dei maschi una strana schiuma ‘minacciava’ vendetta.
Tornando all’approdo trovammo l’ombra; il sole aveva lasciato da poco quella parte dell’isola.
Risalimmo la scalinata che dallo “scaro” ci portava al faro, appagati, senza fatica.
La frescura di quel tratto dell’isola contribuì a lenire i dolori che cominciavamo ad avvertire al costato per la pressione contro il legno di poppa ed il bruciore alle spalle, per il sole assorbito nell’ora di mezzogiorno.
“Dimane turnamme” – ci dicemmo a vicenda io e Pompeo, quasi a voler ipotecare, nel prosieguo di una nuova esperienza, la magia di quei momenti appena vissuti.
L’indomani scese un leggero ponentino e così nei giorni immediatamente successivi.
Andammo altre volte a felloni, negli anni a venire, ma non ne prendemmo mai più così tanti quanti in quel meraviglioso giorno di maggio.
Note
(1) ‘u cuoppe è un attrezzo inventato per catturare le granseole. Si compone di un cerchio di ferro del diametro, più o meno, di 50 cm, e del peso di due/tre chili e di una rete a maglie larghe dell’altezza di un metro che viene cucita intorno al cerchio e chiusa alla sommità da una cima lunga 10/15 mt. necessaria per calare l’attrezzo sui fondali. Al cerchio vengono, inoltre, legate in maniera equidistante tra di loro altre tre cime, anche queste lunghe 10/15 metri, con le quali il coppo viene manovrato, alla stregua di un burattino, per imbrigliare la preda.
(2) ‘u specchie è praticamente una maschera gigante. Di forma quadrata o circolare ha un’altezza di 60/70 cm e un diametro di 30/35 cm. Deve essere di legno per poter galleggiare. La base è costituita da un vetro spesso non meno di 5 mm. reso a tenuta stagna dall’applicazione di stucco marino. Alla sommità, a mo’ di maniglie, due fessure contrapposte per consentire l’inserimento della mani per la presa.
Enzo Di Fazio
(Fari e ricordi. (3) – Continua)